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PRISMA

Federalismo fiscale, perché scoppia la riforma

E' l'eterogeneità culturale del PdL la principale difficoltà alla base di un compromesso al ribasso, che oltretutto ora rischia di saltare.

Prisma 23_01_2011

L’equivoco di fondo che caratterizza il cosiddetto “federalismo fiscale” (in realtà nient’altro che un semplice programma di ridistribuzione del gettito di imposte che continuano a venire stabilite e  gestite da Roma) sta facendo scoppiare la presunta riforma nelle mani del governo; e proprio in un momento cui esso meno che mai ne avrebbe bisogno.

Salutata a suo tempo da grandi squilli di tromba, la riforma del “federalismo fiscale” sconta le difficoltà derivanti dal vero problema di fondo del PdL, che non sono le serate di Berlusconi ad Arcore, bensì l’eterogeneità della sua base elettorale e quindi dei suoi gruppi dirigenti. Un  “patchwork” ove coabitano le rappresentanze dei ceti produttivi per lo più del Nord con le clientele per lo più del Sud; e la nuova economia dell’epoca della globalizzazione con la vecchia economia dei tempi in cui una grande industria incapace di stare con le proprie forze sui mercati internazionali viveva all’ombra degli aiuti di Stato raccogliendo facili utili in un mercato interno protetto. Un mercato chiuso che con vari sotterfugi si riuscì per decenni a mantenere largamente tale anche dopo la nascita del Mercato Comune Europeo.

Si tratta in realtà di una coabitazione molto ardua, direi rocambolesca tra gente che domanda innanzitutto maggior efficienza della pubblica amministrazione e minor pressione fiscale, quindi federalismo, e gente invece che domanda posti pubblici e rispettivamente aiuti di Stato, quindi centralismo. Un federalismo fiscale autentico, basato sulla piena responsabilità fiscale di ciascun ambito di governo, e pertanto sulla coincidenza tra chi decide le spese e chi decide le imposte, può andare bene solo ai primi mentre per i secondi è come fumo negli occhi.

La soluzione del dilemma  ha consistito in primo luogo nel fermarsi a metà strada senza realmente varcare la soglia del federalismo; e in secondo luogo nel rinviare al futuro anche la patata bollente della nuova distribuzione del gettito facendo una legge-delega a maglie molto larghe in cui tutte le scelte fondamentali sono state rimandate ai decreti attuativi. L’unico punto già definito dalla legge è il lentissimo cronogramma della sua attuazione in forza del quale essa potrà dispiegare i suoi eventuali effetti soltanto dal 2014 in avanti, insomma nella seconda metà del decennio ora appena iniziato. Che un partito programmaticamente federalista come la Lega Nord abbia accettato un compromesso così al ribasso, e che anzi sia pronta a giocare su di esso le sorti della legislatura, è un mistero che merita di venire segnalato a futura memoria anche se non abbiamo qui né tempo né modo di approfondirlo.

Il limite fondamentale del “federalismo fiscale” in forma di ridistribuzione del gettito del fisco dello Stato, consiste nel fatto che appunto non si giunge alla cruciale coincidenza tra chi decide le spese e chi decide le imposte. Perciò il momento in cui si deve stabilire il quanto e il come di tale ridistribuzione è tutto un tiramolla tra il governo che sotto la pressione della burocrazia ministeriale cerca di dare meno di quanto dovrebbe e i rappresentanti degli enti locali che cercano di avere anche più di quanto potrebbero legittimamente attendersi. Un “federalismo” di tal fatta diventa perciò un tendenziale brodo di coltura di attriti e di conflitti di competenza. Se poi il negoziato ha luogo in un momento di crisi politica ecco che tutte queste potenzialità negative, come ora sta accadendo, giungono immediatamente al diapason.
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