Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Caterina d’Alessandria a cura di Ermes Dovico
APPUNTI PER LA MATURITÀ/6

Esercitazione su Ungaretti

Il fiume come metafora della vita, nei versi del grande poeta.

Leggi la scheda su Ungaretti

Cultura 26_04_2020

PRIMA PROVA SCRITTA. ESEMPIO DI TIPOLOGIA A

ANALISI E INTERPRETAZIONE DI UN TESTO LETTERARIO ITALIANO

La poesia di Ungaretti si propone come testimonianza di un cammino, di un percorso umano, di una scoperta della realtà che matura nell’esperienza, possibile in un confronto costante con la propria umanità e il proprio cuore, sempre scevro di un approccio ideologico.

Non devono trarre in inganno, infatti, l’adesione del poeta al Partito fascista e la nomina ad accademico d’Italia che non inficiarono in alcun modo la sua scrittura, ma, probabilmente, ostacolarono il conseguimento del premio Nobel. La poesia di Ungaretti rimane grande, proprio perché è uno scavo nella profondità dell’animo umano.

Dieci anni dopo la morte della madre, il dolore colpisce ancora il poeta nella forma più atroce, la perdita del figlio Antonietto. Ungaretti si è trasferito in Brasile per insegnare letteratura italiana all’università. Il figlio, ricoverato in ospedale per un’appendicite, muore in seguito ad una peritonite. La sofferenza trova espressione nella raccolta Il dolore (1947). Ungaretti scrive: ««Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…»/[…] Come si può ch’io regga a tanta notte? […]/E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!».

Potrà trovare conforto solo nella fede: «In cielo cerco il tuo felice volto,/ed i miei occhi in me null’altro vedano/ quando anch’essi vorrà chiudere Iddio». La speranza e la fede non vengono mai meno. In «Accadrà» leggiamo: «Anelante di grazia,/in tanta tua agonia/ Ritornavi a scoprire/ […] che gli uomini sono uguali/ Figli d’un sole,/ d’un eterno Soffio. […] Ora accadrà che cenere prevalga?».

Nella terza raccolta Ungaretti affronta non solo il dolore per la perdita del figlio, ma anche quello provocato dalla Seconda Guerra Mondiale. Ne è testimonianza la bellissima poesia Mio fiume anche tu, proposta qui per l’analisi di testo.


Mio fiume anche tu

da IL DOLORE – da ROMA OCCUPATA 1

 

Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d’agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l’attesa senza requie,
Il peggiore dei mali,
Che l’attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l’offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani;
Ora che già sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo d’abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
“Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata?”

Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell’emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l’uomo lacera
L’immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l’innocenza
Reclama almeno un eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.

Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l’inferno s’apre sulla terra
Su misura di quanto
L’uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
 

Comprensione complessiva
1. Analizza e spiega i contenuti tematici della poesia stanza per stanza.
2. Lo stile di questa poesia è molto differente da quello dell’Allegria. Perché? Com’è la forma metrica? Prendi la prima strofa e conduci un’analisi stilistica per fare emergere gli aspetti retorici principali.

Approfondimenti
3. Ungaretti completa un ideale percorso sui fiumi della sua vita, percorso che aveva avviato con il componimento I fiumi nella raccolta L’allegria. Spiega il significato dei differenti fiumi nella vita del poeta dal Serchio fino ad arrivare al Tevere.

4. Esprimi un tuo giudizio sul valore artistico della poesia e le tue considerazioni personali sul tema affrontato. Soffermati, poi, sulla religiosità di Ungaretti dalla prima raccolta a quelle successive mostrando anche il percorso umano ed esistenziale del poeta.


Dopo aver svolto l’analisi approfondisci lo studio con queste riflessioni sulla poesia I fiumi di Ungaretti.

Una delle poesie più note dell’Allegria intitolata I fiumi viene scritta il giorno seguente alla festa dell’Assunzione, probabilmente dopo che il poeta ha avuto una pausa dalla guerra in occasione della festività.    

Ungaretti racconta l’esperienza vissuta in un paesaggio che risente della guerra, «mutilato» come i soldati che partecipano al conflitto. In un momento di tranquillità s’immerge nell’Isonzo come per un bagno lustrale. L’immersione ha una funzione purificatoria e quasi battesimale.

Il fiume da sempre è metafora della vita: l’esistenza, come un corso d’acqua, ha un suo principio e una sua conclusione. La storia di Ungaretti può essere sintetizzata fino a quel momento in quattro fiumi, che rappresentano quattro differenti tappe della vita. Lo stesso fatto che non ci sia un solo ed unico fiume a rappresentare il poeta documenta il carattere esule e peregrino di Ungaretti, poeta che sta cercando di riappropriarsi della propria identità esistenziale e culturale attraverso la memoria delle radici autobiografiche. Scriverà al riguardo Ungaretti: «Questa è la poesia dove so finalmente e in un modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto e dentro il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto Parola; e so anche che se non ci fosse stato l’Isonzo, non avrei avuto parola originale».

L’immagine circense torna più volte nei versi. Dapprima la dolina, ovvero la depressione carsica, appare nel languore tipico del circo «prima o dopo la spettacolo». A quale spettacolo alluderà il poeta? Evidentemente a quello della guerra: in un momento di sospensione dagli scontri si vive un contesto surreale, di silenzio e di solitudine, quando gli spettatori e gli interpreti della rappresentazione sono usciti momentaneamente di scena e vi devono rientrare. Più tardi compare l’immagine del poeta che si sente come «un acrobata sull’acqua». Il circo appare allora come metafora più generale del grande spettacolo della vita.

Il secondo aspetto che da subito emerge è quello della religiosità, che riporta alla sacralità della vita. L’aggettivo «sacro» in latino significa intoccabile. Ungaretti scopre che la vita, così fragile e transeunte, è come un filo d’erba che facilmente si può strappare. Allora il fiume in cui il poeta si distende appare come «un’urna d’acqua» e Ungaretti si percepisce come «una reliquia», da custodire, da conservare, qualcosa che è rimasto ancora illeso per il momento e che in tutti i modi deve essere conservato a imperitura memoria. Nei versi seguenti troveremo un Ungaretti che s’inchina come un beduino a ricevere il sole, dopo aver deposto i suoi panni «sudici di guerra»: lo sporco dei vestiti ha un’evidenza fisica, ma anche una valenza morale e simbolica.

Il poeta si distende nel fiume Isonzo, il fiume del Carso, quello in cui ha conosciuto la guerra e la fragilità dell’essere umano, e nel quale, al contempo, può percepire di nuovo l’esperienza di «una rara felicità». Disteso nell’acqua Ungaretti può ripensare alla sua vita, raccontata attraverso i fiumi. Ogni età ha un corso d’acqua, immagine simbolica del fluire del tempo. Il Serchio a Lucca rappresenta gli antenati che per secoli hanno attinto acqua. I genitori di Ungaretti erano lucchesi.

Il poeta nasce, però, ad Alessandria d’Egitto e lì, alla vista del Nilo, trascorre i primi 24 anni di vita, inconsapevoli, non ancora intrisi della maturità (consapevolezza che la morte ci strappa quanto di più caro abbiamo) e non ancora sporcati dalla mondanità e dalla vita frenetica della metropoli parigina. La Senna, fiume di Parigi, caratterizza la maturità in cui Ungaretti conosce la capitale culturale e mondana del mondo, gran teatro della Belle Époque, in cui incontra i grandi letterati e artisti. Qui, però, conosce anche la perdita di una persona cara: l’amico Moammed Sceab, partito con lui dall’Egitto, si suicida poco tempo dopo essere giunto a Parigi.

La conclusione della poesia si distende in toni nostalgici e lirici in cui il poeta non smette mai di pensare alla bellezza della vita, non cessa mai di sperare, nonostante il senso di precarietà che lo avvolge. La vita è come «una corolla di tenebre»: ha la consistenza di un fiore, destinato a cadere; di lui ha anche la bellezza; nel contempo, l’oscurità tende a prevalere nelle fasi del conflitto quando lo scoramento rischia di prevalere.

Leggi la scheda su Ungaretti