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La tragedia della guerra e la speranza di Ungaretti

Dinanzi alle atrocità della Grande Guerra, la sopravvivenza di Ungaretti e la consegna ai posteri delle sue poesie appaiono miracolose. In quell’esperienza di precarietà, e di sofferenza, non si annientò, anzi si accentuò la domanda di Dio. Il desiderio di infinito rasserenò l’animo del poeta, aprendogli prospettive nuove. Fino alla conversione, favorita dalla fede della madre, a quarant’anni.
L’ESERCITAZIONE

Cultura 26_04_2020

Partito volontario per la Grande Guerra, Ungaretti la affrontò come soldato semplice, non in audaci operazioni o imprese militari come D’Annunzio, ma nell’esperienza traumatica della trincea, al fronte, prima quello italiano, poi quello francese.

Si trovava a San Martino del Carso fino a due giorni prima che avvenisse la gassazione del 29 giugno del 1916 nella quinta battaglia del San Michele. È un miracolo che non sia morto insieme alle migliaia di soldati italiani che perirono in un solo giorno per i gas asfissianti, in mezzo ad atroci spasmi. Lo spettacolo che si presentò ai soldati della stessa brigata quando all’alba si recarono a vedere le trincee, pensando che fossero state abbandonate, fu atroce: uomini all’apparenza addormentati, tutti morti, con la schiuma alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite e talvolta massacrati con mazzate dagli Austriaci dopo il lancio dei gas.

È strabiliante conoscere questa vicenda, perché dinanzi alle atrocità di quella guerra la sopravvivenza del poeta e la consegna ai posteri delle sue poesie appaiono miracolose.

Nello stesso giorno dello sterminio dei soldati italiani a San Martino del Carso Ungaretti scrisse Dannazione:

Mariano, il 29 giugno 1916

Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

L’esperienza della precarietà della vita non annienta, anzi accentua la domanda di Dio, il desiderio d’infinito e di eternità di un poeta che, cresciuto dalla madre secondo la fede cristiana, ora non crede più. Lo stesso giorno, ricordati i tanti amici morti, Ungaretti si chiede: «Ma Dio cos’è?». La poesia s’intitola in maniera significativa Risvegli:

Mariano, il 29 giugno 1916

Ogni mio momento
io l’ho vissuto
un’altra volta
in un’epoca fonda
fuori di me

Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere

Il ricordo degli amici scomparsi si traduce in una domanda che il poeta spera possa trovare risposta: è una domanda su Dio, ma che, nel contempo, è rivolta a Lui stesso. Nel poeta sgorga in maniera spontanea l’attesa di Dio, proprio come in modo naturale in Fratelli scaturì la coscienza di una fratellanza universale.

La creatura mortale, «atterrita», è per sua natura «religiosa», da sempre, dalla notte dei tempi. Nella percezione del Creatore attraverso le stille di stelle che dal cielo piovono nel cuore, Ungaretti inizia a vedere la realtà in modo diverso («la pianura muta») e riprende coscienza di sé. Il poeta non lo esprime ancora a parole, probabilmente non ne ha ancora piena consapevolezza: solo nel rapporto con il Padre creatore, solo in questo senso di dipendenza, l’uomo può davvero respirare e vivere.

Da sempre animato da un desiderio sincero di andare nella profondità delle cose, Ungaretti intende raccontare la scoperta della realtà e della verità come racconta in Ragioni d’una poesia:

Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è, e col mistero, di pari passo, la misura; ma non la misura del mistero, cosa umanamente insensata; ma di qualche cosa che in un certo senso al mistero si opponga pur essendone la manifestazione più alta: questo mondo terreno considerato come continua invenzione dell’uomo.

Allo stesso modo, di fronte alle atrocità della guerra Ungaretti sente l’esigenza di scrivere:

Incomincio Il porto sepolto dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero sul Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. […] Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea d’uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte […]. Nella mia poesia non c’è traccia di odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, c’è esaltazione, quell’esaltazione quasi quotidiana dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte […]. A dire il vero, quei foglietti (cartoline, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute…), sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, […] non erano destinati a nessun pubblico.

Un giorno, un sottotenente di nome Ettore Serra vide un soldato più anziano degli altri che non aveva salutato l’ufficiale di passaggio. Fu incuriosito e, anziché punirlo, iniziò a dialogare con lui scoprendo che condivideva con lui la stessa passione per la poesia. Ungaretti mostrò i versi che teneva in tasca e nel tascapane e ne lesse alcuni.

Così nacque l’idea di far conoscere quella testimonianza: i versi di Ungaretti furono pubblicati in ottanta copie nel 1916 con il titolo de Il porto sepolto presso lo stabilimento di Ettore Serra a Udine. Confluirono, poi, ne L’allegria di naufragi nel 1919 che divenne poi L’allegria (1931) comprendente cinque sezioni: Ultime, Il porto sepolto, Naufragi, Girovago, Prime.

I versi dell’Allegria sono un’importante testimonianza storica sulla Grande Guerra, oltre che un chiaro giudizio sull’esperienza della vita militare e della trincea durante il conflitto. La scrittura, orientata nella direzione della scarnificazione del verso, dell’abolizione della punteggiatura, dell’espressione lapidaria, dell’uso del blanchissement (lo spazio bianco), diventa rivelatrice del tentativo del poeta di andare al cuore delle cose e della vita, senza orpelli retorici e paludamenti che possano nascondere l’evidenza della realtà. Il titolo delle poesie è accompagnato dal riferimento al luogo e alla data di composizione (come in un diario).

Ungaretti si contrappone alla retorica e all’eloquenza militare che esaltano la guerra, i combattimenti e la morte in battaglia. La guerra non crea eroi, temprati dalle battaglie e dalle stoiche rinunce, ma porta solo distruzione e annientamento.

La speranza di vita che alberga nell’animo del poeta non può, però, essere annientata. Lo vediamo in Veglia: la morte colpisce il poeta non tanto perché riguarda una persona che gli è vicina, amica, familiare, ma perché è cruda, ingiustificata, prossima a tutti i soldati che combattono la guerra. Se le mani del compagno, ormai prese dalla congestione della morte, sono immobili, quelle del poeta possono scrivere e farsi portavoci di un messaggio per tutti. I versi diventano un monito universale, promosso da un testimone che ha vissuto in prima linea l’orrore della guerra.

Il compagno morto, con le mani che si stanno indurendo, ha il volto ancora rivolto al plenilunio, cioè alla luce, quasi a voler indicare che l’uomo desidera la vita fino all’ultimo, anche in punto di morte. Anche il poeta, che assiste a massacri pressoché quotidiani, sente che il suo animo aspira alla vita e all’amore. La morte non provoca in lui il desiderio di vendetta, ma l’aspirazione alla vita, tanto che scrive «lettere piene d’amore», perché non è mai stato «tanto/ attaccato alla vita».

Dopo tre anni di guerra e di atrocità, trovandosi in Francia sul fronte occidentale, Ungaretti scrive che al di là della nebbia si trovano ancora le stelle. Il titolo Sereno è rivelatore di uno stato d’animo particolare, rasserenato, uno di quei momenti in cui il poeta ha la percezione di intravedere una via di uscita, in mezzo a tante atrocità. Infatti, al di là delle nebbie che si diradano Ungaretti scorge le stelle, che rappresentano il desiderio di vita, di amore, di felicità. Il cielo torna a colorarsi e a trasmettere così aria di vita nuova. I versi sono intrisi di percezioni sensoriali molteplici, che coinvolgono tutta la persona: alla vista («si svelano/ le stelle», «il colore del cielo») si unisce il tatto («il fresco/ che mi lascia») in un’efficace sinestesia.

Non è un sentimento dimentico della reale condizione dell’esistenza, improntata alla precarietà, tanto che Ungaretti scrive: «Mi riconosco/ un’immagine/ passeggera». La brama d’infinito non cessa di palpitare nel cuore del poeta («Presa in un giro/ immortale»).

La domanda del poeta troverà risposta soltanto alcuni anni dopo. Nel 1928 Ungaretti si reca nel monastero di Subiaco con un amico e si compie il suo cammino di conversione. Scriverà più tardi:

Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è pura bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile.

L’anno successivo alla conversione di Ungaretti muore la madre. Ora il mistero della morte è contemplato alla luce di una speranza più grande. Il poeta scrive allora una delle poesie più toccanti e belle, La madre, in cui ben emerge l’influenza che la religiosità materna, stampata nella sua memoria fin da piccolo, ebbe, poi, nella formazione della sua persona, anche se la conversione lo avrebbe toccato solo a quarant’anni, dopo aver incontrato nuovamente il cristianesimo. La lettura di questi versi riempie di commozione.

Così Ungaretti parla della persona a lui più cara non in termini memoriali, ma a colloquio con lei ancor viva e che si trova finalmente davanti all’eterno. Il componimento confluirà nella seconda raccolta del poeta, Il sentimento del tempo, caratterizzata da una riscoperta della tradizione (su tutti Petrarca e Leopardi), del verso e delle forme metriche passate oltre che dalle suggestioni della filosofia di Henri Bergson.

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