Ergastolo giusto, soddisfa tutte le funzioni richieste
Ergastolo pena ingiusta? Le cose non stanno così. Una pena per essere giusta deve soddisfare tre finalità: la finalità retributiva, quella dissuasiva, quella pedagogica-rieducativa. E l’ergastolo soddisfa questa triplice finalità.
-LA RIEDUCAZIONE NON E' REINSERIMENTO SOCIALE di Elisabetta Samek Lodovici
L’articolo di sabato scorso dal titolo “Ergastolo, perché è giusta la richiesta della Corte Europea” a firma di Romano l’Osservatore è ricco di spunti interessanti. Però la tesi di fondo ci pare non condivisibile. Scrive l’autore: “Occorre sempre tener presente che secondo l’art. 27 della nostra Costituzione (e in questo caso anche secondo una visione cristiana delle cose) ‘il carcere e le pene devono tendere sempre alla rieducazione del condannato’. Quale rieducazione sarà mai possibile se l’ergastolo è ostativo, ovverosia vige la regola del ‘fine pena mai’?”. Dunque l’obiezione sarebbe la seguente: se la finalità del carcere è la rieducazione del condannato, impedire a quest’ultimo di riacquistare la libertà contraddice questa finalità, ergo l’ergastolo è pena ingiusta.
Le cose non stanno così. Una pena per essere giusta deve soddisfare tre finalità (per le pene detentive si aggiunge anche la finalità di preservare l’incolumità di terzi dalla pericolosità sociale del condannato): la finalità retributiva, quella dissuasiva, quella pedagogica-rieducativa. Vediamo se l’ergastolo soddisfa questa triplice finalità.
La finalità retributiva comanda di individuare quella pena che meglio ristora l’ingiustizia perpetrata. La sofferenza serve per restaurare il volto della giustizia deturpato dall’atto criminale. E’ la prima funzione della pena, nel senso che è quella più importante da cui germinano le altre due, eppure, potremmo così esprimerci, è la funzione meno tangibile, meno concreta, è la più astratta rispetto alle altre due. Nonostante questo è quella più sentita come vera dal percepito collettivo: “Se ha sbagliato, è giusto che paghi!” si sente spesso dire e a ragion veduta. Dunque se i danni inferti alla giustizia valgono 100, 100 devi restituire. Il principio retributivo della pena è ben presente nel Vecchio e Nuovo testamento: «Chi sparge il sangue dell'uomo dall'uomo il suo sangue sarà sparso» (Gn 9,6); «Chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame lo pagherà: vita per vita. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all'altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all'altro. Chi uccide un capo di bestiame lo pagherà; ma chi uccide un uomo sarà messo a morte» (Lv 24, 17-21); «perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,2); «date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,38). Dunque se uno ha commesso molti omicidi ed altri reati di eccezionale gravità e inoltre ha strutturato questa sua condotta facendo parte di una organizzazione criminale che persegue lo scopo di sovvertire i principi portanti della convivenza civile, allora, alla luce del principio retributivo, occorre trovare una pena adeguata alla natura delle condotte e al grado di responsabilità. L’ergastolo può essere una pena adeguata.
Va da sé poi che l’ergastolo può rispondere al fine di deterrenza: dissuadere i consociati dall’abbracciare simile condotte criminali. Veniamo però al punto dolente indagato da Romano l'Osservatore: l’ergastolo, seppur rispetti la funzione retributiva, non rispetterebbe quella pedagogica rieducativa perché impedirebbe al reo di riacquistare la libertà. L’obiezione si supera nel modo seguente: il reo con la condotta illecita ha perso una certa quota di umanità. La sofferenza, cioè la pena – che però deve essere una pena adeguata alla dignità della persona e quindi non deve essere degradante – aiuta, insieme ad altri fattori, il condannato a recuperare quella quota di umanità andata perduta. E questo può accadere anche in carcere, senza la necessità di uscirne, ossia può accadere per una pena detentiva vitalizia (anche la pena di morte può soddisfare la finalità pedagogica: a tal fine è necessario che tra sentenza ed esecuzione ci sia un tempo congruo per ravvedersi. Ma a volte, per grazia divina, questo tempo può essere anche brevissimo. L’episodio del buon ladrone è in tal senso significativo).
Dunque la mancanza della possibilità di uscire dal carcere non intacca necessariamente la finalità pedagogica. Questo è il punto fondamentale da tenere a mente. Ci si può emendare in carcere? Sì, al netto delle condizioni degradanti in cui vivono i reclusi nelle nostre carceri. Diamone una prova. Quando, ad esempio, il giudice attesta che il recluso ha compiuto un iter di rieducazione tale che merita di uscire per permessi premio, attesta appunto che dietro le sbarre si può migliorare, cioè si può soddisfare la finalità pedagogica della pena. Dunque anche l’ergastolo, seppur escluda dall’orizzonte del recluso la libertà futura, può esplicare una funzione pedagogica. Ma perché, obietterebbe qualcuno, escludere a priori che dopo il carcere ci sia la libertà? Risposta: se rimettere in libertà il condannato, perché ad esempio perfettamente rieducato, non permettesse di soddisfare la finalità retributiva, non dovrebbe essere concesso. In altri termini, se il reato necessita di una pena vitalizia, va da sé che la scarcerazione è ipotesi non contemplata.
Inoltre c’è da aggiungere che una pena detentiva perenne può essere l’esito della mancanza di volontà di emendarsi. Se la pena mira anche alla finalità rieducativa, se questa finalità mai si compirà per volontà del condannato ne consegue che anche la pena mai avrà termine.
Occorre poi distinguere tra rieducazione e reinserimento nelle società. Due riflessioni. La prima, che in filigrana era già sottesa alle argomentazioni già prima articolate: solo una volta soddisfatta le finalità della pena si può riacquistare la libertà. Il reinserimento sociale è quindi l’effetto dell’esaurimento delle funzioni della pena. Se, lo ripetiamo, il reato commesso per i sui profili oggettivi e soggettivi esige un “fine pena mai”, la soddisfazione della funzione avverrà, dal punto di vista giuridico, solo alla morte del reo.
Secondo: oggi si pensa che non ci sia autentica rieducazione se non volta al reinserimento nella società, da qui la condanna dell’ergastolo. Ma non tutti i percorsi pedagogici devono necessariamente sfociare nell’riacquistare la libertà, se ad esempio, come visto sopra, ciò intaccasse il principio retributivo. Questa equazione “rieducazione = riabilitazione sociale” deriva soprattutto, ma non solo, da Rousseau. I cittadini concludono un contratto sociale.
Il delinquente non lo rispetta e allora finisce dietro le sbarre finchè non dà prova di rispettare tale contratto, finchè non ammette che era un sovvertitore delle regole sociali (poco importa che queste fossero ancorate alla legge morale naturale). Simile visione meramente sociale del carcere, in pieno sposata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è stata alla base dei processi in Unione sovietica, in Cina etc. che si concludevano e si concludono quasi sempre con la confessione (spesso estorta), cioè con l’ammissione di essere un nemico del popolo e quindi come tale di essere persona da rieducare socialmente attraverso il carcere. Una volta rieducato ai valori civili si è pronti (più in astratto che nella realtà) per tornare in libertà. In breve il carcere era per chi si autoescludeva dal contratto sociale e quindi come tale non poteva vivere in società.
La funzione retributiva, a motivo del fondamento nel principio metafisico di giustizia, era esclusa. Questa visione ha influenzato moltissimo il sentito comune, tra cui anche quello dei cattolici, facendo sì che l’unica funzione della pena sia quella volta al reinserimento sociale: ne discende che l’ergastolo non si concilia in nulla con questa unica funzione. Ma il reinserimento sociale, lo ripetiamo, è possibile solo dopo aver soddisfatto le finalità delle pene, che, se vogliamo, nei casi diversi dall’ergastolo, diventano anche strumenti per reintrodurre l’ex recluso in società.
Nell’articolo oggetto della presente replica, si accennava poi al fatto che nella visione cristiana la funzione della pena è rieducativa. Vero, ma se non la si intende in senso esclusivo. Ciò a dire che nel portato culturale cristiano vi sono presenti anche le altre due funzioni della pena e dunque si legittima non solo l’ergastolo e ma anche la pena di morte. Il fatto che sia l’una che l’altra pena siano accettate dalla “visione cristiana” è provato non solo sul piano razionale (ciò che è ragionevole è anche cristiano), ma anche da dati scritturistici (infiniti sono gli esempi, ad esempio il brano del Levitico più sopra riportato così si esprimeva qualche riga prima: “Il Signore parlò a Mosè: ‘Conduci quel bestemmiatore fuori dell'accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà. […] Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare’”) e quindi teologici, tra cui vogliamo evidenziarne uno: la pena dell’inferno. Quello è il vero ergastolo ostativo, da cui non si uscirà mai. E l’inferno si può identificare anche come pena di morte, dato che è la seconda morte (la separazione perenne da Dio che è Vita è un continuo morire). Se Dio punisce eternamente, perché non dovrebbe essere legittimo che anche l’uomo condanni ad una pena senza fine? Appuntiamo infine che nella pena dell’inferno non c’è la funzione rieducativa perché esclusa dagli stessi dannati i quali non vogliono emendarsi.