La rieducazione non è reinserimento sociale
La rieducazione del reo non mi pare che debba essere identica al suo reinserimento sociale, precluso dall’ergastolo, bensì designa il suo pentimento per il male commesso.
Caro Direttore,
ho letto con interesse l’articolo che ha in me suscitato qualche perplessità, anche ripensando alle molte riflessioni sentite dal mio babbo, che ha ricoperto per molti anni della sua carriera il ruolo di Presidente di Corte d’Assise a Milano.
Se ben comprendo, l’ergastolo sarebbe errato perché, come sostiene l’autore dell’articolo, «le pene devono tendere sempre alla rieducazione del condannato» e «come potrebbe un operatore del carcere lavorare alla rieducazione del condannato se anche un cambiamento profondo e convinto dell’atteggiamento del condannato stesso, il suo chiedere sinceramente perdono ai familiari delle vittime, il suo sincero pentimento per i fatti compiuti, non ottenessero mai nessun tipo di riconoscimento dalla comunità, ovverossia dallo Stato?».
Ora, la rieducazione del reo non mi pare che debba essere identica al suo reinserimento sociale, precluso dall’ergastolo, bensì designa il suo pentimento per il male commesso.
Quanto all’apprezzamento della comunità per il pentimento, non mi pare il modo corretto per invogliarlo a pentirsi: il reo si deve pentire perché ha commesso un grave male, per la malvagità intrinseca del male che ha commesso, non per ragioni estrinseche, come avere un apprezzamento sociale e/o uno sconto di pena. Dire ad un reo «se ti penti del male che hai commesso avrai uno sconto di pena» non mi sembra un modo adeguato per favorire un sincero pentimento interiore per il male inflitto in quanto male.
Soprattutto, la mia perplessità riguardo alla tesi espressa dall’articolo riguarda quella che mi sembra debba essere la funzione principale della pena, cioè la funzione retributiva.
Nel mondo cattolico contemporaneo questa funzione è contestata, ma con buone ragioni il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 2266 afferma al riguardo: «La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa».
Anche da un punto di vista non religioso, la pena come retribuzione va intesa quale corrispettivo, che beninteso deve essere proporzionato, del male commesso dal reo, e deve ristabilire la simmetria dei diritti che il reo ha infranto commettendo il reato, prevaricando sulle altre persone. Come un ladro dovrebbe (se possibile) risarcire il derubato della somma che gli ha tolto, come una squadra sportiva che ha barato infrangendo la situazione di simmetria sussistente con le altre squadre deve essere penalizzata, così (al netto delle debite differenze: il presente ragionamento è per analogia e non c’è un automatismo meccanico) il reo deve subire una pena per scontare il male che ha compiuto.
Ora, se la pena ha anzitutto una finalità retributiva (non rieducativa), ne segue che ci possono essere dei reati che sono talmente gravi da esigere come unica retribuzione l’ergastolo.
Quali siano questi reati è un’altra questione e al riguardo non è rilevante solo la gravità oggettiva del reato, ma è anche molto importante la situazione soggettiva del reo, che a volte agisce con lucidità e premeditazione, talvolta no, che a volte è consapevole del male che commette, talvolta no o solo in parte (anche per condizionamenti culturali) e così via.
C’è inoltre da aggiungere che il reo, prevaricando sui suoi simili, ha lesionato la propria dignità morale (quella morale, perché l’essere umano non può perdere la dignità ontologica), che l’espiazione della pena e il pentimento gli restituiscono.
In questo senso, ai tempi dei miei studi liceali mi aveva molto colpito apprendere che Platone sosteneva che la cosa peggiore che può capitare ad un essere umano non è commettere ingiustizia, bensì commettere ingiustizia e non venire punito, perché in tal caso egli non recupera la propria dignità morale.
Questa è la principale differenza (se ne potrebbero menzionare altre) tra la vendetta e la pena: la vendetta vuole il male di Tizio, la pena vuole ristabilire la giustizia e restituire dignità morale al reo, quindi vuole il suo bene.
Ciò significa che esiste non solo un diritto-dovere dello Stato di punire, ma anche un diritto del reo di essere punito dallo Stato.
Anche se molto raramente, ci sono dei casi in cui alcuni rei chiedono proprio di essere puniti: ricordo in particolare un caso di cui parla il mio babbo anche nelle sue memorie, ma si legga al riguardo, per esempio: Processo Pietrantonio a Roma, Paduano: "Chiedo scusa ma non chiedo sconti di pena".
Ciò detto, si possono pensare certamente pene alternative rispetto alla mera detenzione in carcere (per di più pensando alla situazione spesso degradante delle carceri italiane), ma che in linea di principio una pena non possa durare a vita mi sembra una tesi non condivisibile.