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MAGISTRATURA E POLITICA

Eppur si muove: la riforma della giustizia

La politicizzazione della magistratura è uno dei principali problemi della nostra democrazia. E nessuno è riuscito a riformarla. Forse adesso qualcosa si muove: il governo Draghi ha presentato la riforma, che andrà poi discussa in Parlamento (senza fiducia). È un primo tentativo di separare la magistratura dalla politica. 

Editoriali 12_02_2022
Cartabia e Draghi

Uno dei tarli che corrode maggiormente la nostra democrazia è quello della politicizzazione della magistratura. I rapporti tra giustizia e politica sono sempre stati alterati, fin dai tempi di Tangentopoli, ed è spesso mancata la serenità di giudizio per poter affrontare seriamente il problema, prendendo il toro per le corna.

Forse ieri è stato messo un tassello importante nel mosaico della riforma della giustizia, attraverso l’introduzione di meccanismi che evitano conflitti di interessi, commistioni, strumentalizzazioni. Ma i mal di pancia non mancano, al di là dell’unanimità con cui la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario è stata approvata in Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio, che ieri ha anche smentito le voci di un suo possibile ingresso in politica alla fine della legislatura, ha fatto sapere che il governo non metterà la fiducia sul provvedimento, perché ritiene fondamentale coinvolgere i partiti attraverso il confronto parlamentare. Ma le forze politiche, dalla Lega a Forza Italia fino ad arrivare ai Cinque Stelle, fanno buon viso a cattivo gioco e in realtà incassano con molte riserve questa novità normativa, che è attesa ovviamente alla prova del confronto parlamentare.

Ma cosa prevede nei suoi punti essenziali questa riforma? Anzitutto lo stop al rientro in magistratura per chi ha ricoperto una carica elettiva. Si stoppa, quindi, il meccanismo perverso delle porte girevoli, con giudici che tentavano la strada dell’impegno in politica, venendo quindi meno anche formalmente ai requisiti di terzietà, per poi tornare a indossare la toga in caso di insuccesso o comunque al termine del loro mandato. «I magistrati che hanno ricoperto cariche elettive di qualunque tipo o incarichi di governo (da parlamentare nazionale ed europeo, consigliere e presidente di giunta regionale a consigliere comunale e sindaco) – si legge nel testo approvato - non possono più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale».

Dunque i magistrati ordinari vengono poi collocati fuori ruolo presso il Ministero di appartenenza. I magistrati amministrativi e contabili, invece, troveranno collocazione «presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero sono destinati allo svolgimento di attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti né requirenti». La ratio della norma è evidente: chi ha chiesto voti all’opinione pubblica, candidandosi alle elezioni per un partito, non può più avere credibilità se torna a indossare l’abito dell’”arbitro” e quindi è giusto che faccia altro.

C’è anche un altro divieto molto esplicito nella riforma approvata ieri in Consiglio dei ministri: quello di esercitare funzioni di giudice o pm mentre si ricoprono incarichi elettivi e governativi, anche se in un territorio diverso. Il caso di Catello Maresca, consigliere comunale a Napoli e contemporaneamente giudice a Campobasso, è destinato, quindi, a non ripetersi in futuro. I magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari che hanno svolto incarichi apicali nei ministeri o incarichi di governo non elettivi (capi di gabinetto, segretari generali presso i ministeri o capi dipartimento), non potranno svolgere per tre anni funzioni giurisdizionali. Così come i magistrati che si sono candidati in politica e non sono stati eletti.

Ma per impedire riedizioni del cosiddetto “sistema Palamara” era importante anche rivedere i meccanismi di funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, che dovrà rinnovare la sua composizione a luglio. Nel testo della riforma sono state modificate in modo incisivo le modalità di nomina del Csm e dei vertici apicali «per evitare –ha chiarito la Guardasigilli, Marta Cartabia - nomine a pacchetto e accordi non virtuosi e per restituire fiducia e credibilità alla magistratura».

Per l'elezione del Csm viene introdotto un sistema elettorale misto, basato su collegi binominali, che eleggono cioè ciascuno due componenti del Csm, ma che prevede anche una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale. Non sono previste liste, ma candidature individuali. I componenti del Csm tornano come in passato a 30: 20 togati e 10 laici. Nel sistema elettorale misto previsto troverà spazio anche il sorteggio. Servirà ad assicurare che in ogni collegio binominale sia raggiunto il minimo previsto di 6 candidati e per riequilibrare le candidature del genere meno rappresentato.

Se nella sostanza le forze politiche sono più o meno convinte della bontà dei principi declinati nel testo di riforma, sulla graduazione delle misure ci sarà scontro in Parlamento. Lo lascia intendere Giulia Bongiorno, senatrice leghista e responsabile del dipartimento giustizia del Carroccio, smorzando gli entusiasmi: «Quanto approvato è solo un punto di partenza. Il testo dovrà essere migliorato in Parlamento, così come assicurato dal premier Mario Draghi, ma un cambiamento radicale sarà possibile solo grazie ai referendum», quelli proposti dai radicali e dalla Lega stessa.

Si frena anche da ambienti pentastellati: «Esamineremo il testo in Parlamento, con l'auspicio di approvarla definitivamente prima del rinnovo delle cariche al Csm, ma intanto possiamo dirci soddisfatti». E’ presto, quindi, per cantare vittoria. La strada verso una magistratura realmente autonoma e indipendente, distante dalla politica e in grado di autogovernarsi senza veleni e senza trame oscure appare ancora irta di ostacoli.