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TRUMP O HARRIS?

Elezioni negli Usa, il voto in un paese diviso fin dentro le famiglie

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Quel che si teme nel voto attuale è che nessuno dei due candidati sia disposto ad ammettere la sconfitta. La polarizzazione è altissima, anche dentro le famiglie, fin dal 2016. Gli Stati si preparano ad affrontare violenze politiche. Douglas Murray cita l'esempio di Nixon, il pacificatore.
- Come ha fatto Kamala Harris a candidarsi di Alessandra Nucci

Esteri 06_11_2024
Schede bruciate a Portland (La Presse)

«Il paese attende con ansia di sapere quale delle due parti negherà la validità dei risultati elettorali», titola il sito umoristico Babylon Bee, l’equivalente americano del nostro Lercio. Ma non è proprio una battuta.

Quel che si teme nel voto attuale è che nessuno dei due candidati sia disposto ad ammettere la sconfitta, costringendo gli Usa ad uno stallo istituzionale. Con un pericolo di destabilizzazione, nei prossimi due mesi, che non può essere sottovalutato.

«Se perdo un’elezione, se è un’elezione giusta, sarei il primo a riconoscerlo», ha dichiarato l’ex presidente Trump subito dopo il suo voto, gettando acqua sul fuoco sulle polemiche. A domanda sulla possibilità di violenza, risponde che: «I miei sostenitori non sono violenti». Però, a orecchie democratiche, questo discorso non placa alcuna paura. Notano quel “se”, riguardo la correttezza del voto. E già nei giorni scorsi, Trump aveva iniziato a denunciare brogli in Pennsylvania, lo Stato più determinante di questa tornata elettorale.

Dall’altra parte, il rappresentante democratico Jamie Raskin è uno dei tanti esponenti del partito di sinistra che non intendono certificare la vittoria di Trump, se non ritengono che le elezioni siano state corrette. Secondo il sito Axios, «Raskin, membro di spicco del Comitato di vigilanza della Camera ed ex membro del comitato del 6 gennaio, ha affermato ad Axios in un’intervista che se Trump “vincesse un’elezione libera, giusta e onesta, allora ovviamente l’accetteremmo”. Tuttavia, Raskin ha detto che non dà per scontato che Trump userebbe metodi “liberi, giusti e onesti” per assicurarsi una vittoria». Raskin non è l’unico esponente democratico che farebbe ostruzionismo il prossimo 6 gennaio. E già solo il fatto che sia Biden che la Harris definiscano Trump una “minaccia per la democrazia” fa capire come non lo ritengano un candidato legittimo. Si preparano a non accettarne l’eventuale vittoria domani mattina.

Gli elettori americani, dal 2000 ad oggi, sono sempre più divisi. La polarizzazione ha toccato nuove vette dopo la vittoria di Trump nel 2016. E c’è purtroppo una realtà drammatica dietro alla battuta dell’attrice Julia Roberts che, in uno spot elettorale per Kamala Harris, ha invitato le donne a tradire i mariti e votare per la candidata democratica, presentandola come la portavoce dei diritti delle donne. Infatti secondo l’Institute for Family Studies dopo la vittoria di Trump, 1 coppia americana su 10 si è separata per motivi politici. E almeno 1 americano su 5 conosce almeno un caso in cui un matrimonio è entrato in crisi a causa delle elezioni.

Nel 1958 l’istituto Gallup chiese: “Se avesse una figlia in età da matrimonio, preferirebbe che sposasse un democratico o un repubblicano, a parità di altre condizioni?”. E i risultati furono confortanti: solo 18% degli americani rispondeva di preferire un parente acquisito democratico e il 10% un repubblicano, ma la maggioranza schiacciante dichiarava di non badare alle scelte politiche del futuro genero. Nel 2016, la situazion era completamente cambiata, il 28% degli intervistati dichiarava di preferire che la propria figlia sposasse un democratico e il 27% un repubblicano, e la percentuale di chi non si preoccupa si era ridotta in modo significativo, secondo Lynn Vavreck, politologa dell'UCLA. Si misurassero oggi queste tendenze, sarebbero ancora più marcate.

La polarizzazione, anche all’interno delle famiglie, è un fattore che può rendere più probabile la violenza politica. E qualcosa già si è visto, piccoli incidenti, senza vittime, ma abbastanza per allertare le autorità. Il 28 ottobre, a Vancouver, nello Stato di Washington, con il voto anticipato già in corso da settimane, sono state bruciate schede elettorali in una cassetta postale mentre la maggior parte delle schede in una cassetta di Portland, Oregon, è sopravvissuta a un incendio appiccato lo stesso giorno. Si ritiene che gli incidenti siano collegati a un terzo incendio avvenuto l'8 ottobre, sempre a Vancouver. Col risultato che, in vista del conteggio definitivo, la Guardia Nazionale dello Stato sulla costa Ovest è stata posta in stato di allerta, così come quella dell’Oregon, del Nevada e del Colorado, dove si temono disordini. Anche la stessa Las Vegas, patria del divertimento nel Nevada, appare in una inedita veste di città blindata, con transenne e barriere della polizia.

Washington DC, chiaramente, è la città più presidiata: barriere provvisorie in ferro sono state erette in prossimità delle sedi istituzionali, sia la Casa Bianca che il Campidoglio. Nelle aree in cui si prevedono potenziali disordini, anche negozi e ristoranti sono blindati e con le vetrate protette da pannelli di legno. Si teme, insomma, qualcosa come le sommosse di Black Lives Matter (se vince Trump) o un nuovo 6 gennaio (se vince la Harris).

Douglas Murray, giornalista e opinionista conservatore britannico, su The Free Press, si augura che le elezioni non sfocino in guerra. Dipende tutto dal comportamento dei candidati: «Come ho detto spesso negli ultimi quattro anni, la democrazia dipende dal fatto che i risultati delle elezioni siano chiari e condivisi, e perché ciò accada sono necessarie due cose. Non solo che una parte vinca e sappia di aver vinto, ma anche che un'altra parte perda e sappia di aver perso. Solo così una parte perdente e una vincente potranno andare avanti e adattarsi alle realtà che hanno prodotto il risultato».

Come antidoto, Murray cita l’esempio del presidente Nixon, quando ammise la sconfitta nel 1960 (contro Kennedy) pur con un risultato in bilico e contestato. « Oggi Nixon non viene spesso citato come esempio di buone pratiche – scrive Murray nel suo editoriale alla vigilia del voto - Ma nel caso del discorso di concessione pronunciato la sera delle elezioni presidenziali del 1960, sarebbe giusto farlo. La gara di quell'anno fu eccezionalmente combattuta. Anche se nel collegio elettorale il rivale democratico di Nixon, John F. Kennedy, finì per ottenere 303 voti contro i 219 di Nixon, il voto popolare era praticamente in parità tra i due candidati. Kennedy era in vantaggio di meno di mezzo punto percentuale». Eppure, anche in quelle circostanze e con il sospetto (fondato) di brogli elettorali a Chicago, con i sostenitori di Nixon che gli chiedevano di tenere duro, il candidato repubblicano accettò la sconfitta rispose ai suoi elettori: «Una delle grandi caratteristiche dell'America è che abbiamo competizioni politiche. Sono molto combattute, come lo è stata questa, e una volta che la decisione è stata presa, ci uniamo dietro l’uomo che è stato eletto (…) Voglio che il senatore Kennedy sappia, e voglio che tutti voi sappiate, che se questa tendenza continuerà e lui diventerà il nostro prossimo presidente, avrà il mio pieno sostegno e anche il vostro».