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DA LIVERPOOL

Ecco chi sono i protagonisti della battaglia di Alfie

La vera anima sono i giovani e la gente della classe popolare di Liverpool. È lì che la Provvidenza è andata a pescare per dare le prime scosse alle fondamenta del potere eugenetico e tracotante. Seguendo Thomas e Kate, i genitori di Alfie, si capisce perché.
- RIVIVI LA DIRETTA DELL'UDIENZA E DELLA SENTENZA
- ore 16: UN PRETE ITALIANO NELLA STANZA DI ALFIE, di B. Frigerio
- CASO ALFIE, COSA C'È IN GIOCO, di Riccardo Cascioli (English II Español)
-VINCENT, LA BATTAGLIA LEGALE E L'APPELLO DEI MEDICI di Luisella Scrosati

Attualità 17_04_2018

Già alle dieci di ieri mattina la folla delle persone che da giorni sostengono fuori dall’ospedale la battaglia della famiglia di Alfie Evans, per la difesa della vita in ogni sua condizione e stadio, era presente. La maggioranza sono giovani toccati profondamente dalla testimonianza di Thomas e Kate, ventenni come loro. Guardando la dedizione con cui protestano, cantano, fanno fiaccolate fino a sera tarda, si capisce che quando un giovane trova una proposta all’altezza del suo desiderio sa fare grandi cose. Thomas, il padre di Alfie, con loro ha stretto amicizie fraterne, da loro si fa aiutare e aiuta.

Davvero pare che la provvidenza abbia scelto come vessillo della sua battaglia la gente semplice, unita a due genitori e al loro Alfie per dire “no” ad un sistema sanitario eugenetico e corrotto, che priva il popolo dei propri diritti fondamentali. Thomas sta facendo scuola testimoniando cosa vuol dire essere uomini, mariti, padri. La gente lo guarda, lo segue e ama Alfie come fosse figlio proprio. 

Durante l’udienza i manifestanti hanno cantato senza interruzioni per incoraggiare i genitori del piccolo: «Rilasciate Alfie Evans, Ti amiamo Alfie». Thomas fa su e giù dalla stanza del suo piccolo (detenuto da due poliziotti al quinto piano dell’Alder Hey Hospital) per sapere cosa sta succedendo in tribunale. Gli diciamo che il processo è folle, che è palese che i giudici non sono imparziali, anzi sembrano l’accusa. Lui alza le spalle: «Tanto facciamo ricorso, non è finita qui». Kate pare più tranquilla, quando scende a pranzare con le amiche gioca con i bambini nell’hall. È molto materna, protettiva nei confronti di Thomas e di conforto per lui. Si sostengono a vicenda. E se le chiediamo quando è meglio far entrare nella stanza di Alfie don Gabriele, venuto dopo aver letto che nessun sacerdote aveva impartito l’unzione degli infermi, Kate ci risponde che «decide Thomas». 

Sorprende vedere la semplicità sana conservata da questo spaccato della classe popolare di Liverpool, fatta di mamme giovanissime con figli e di famiglie numerose. Sostanzialmente gente socievole ma spiccia, incapace di troppi convenevoli. Pensando agli educati “safe space” delle università inglesi (che permette agli studenti di stare a riparo da opinioni diverse dalla propria affinché non restino traumatizzati) viene da credere che chi è poco istruito e non frequenta le chiese, dove alcuni sacerdoti hanno mostrato di agire come funzionari di Stato, conserva una capacità di vivere e di giudicare la realtà di gran lunga superiore a chi ha studiato e magari va in parrocchia ma la pensa come il mondo. 

Per crederci basta paragonare le affermazioni di Thomas alla sentenza dei giudici che ieri hanno respinto le argomentazioni della difesa: «Trasferire nostro figlio che è stabile è un rischio, ma rimuovere un supporto vitale e farlo soffocare no? Dov’è la logica? Mi dicono che devo affrontare la realtà. Lo sto facendo da 15 mesi. Non è vero che non accettiamo la morte, ma non vogliamo decidere noi quando deve venire». 

Ma di questa gente colpisce anche la fede, pare ne abbiano più loro dei sacerdoti che si sono rifiutati di venire quantomeno a confortare la famiglia. Thomas invece ha portato padre Gabriele nella stanza di Alfie, contento perché «questa è più potente di una benedizione, vero padre?». Il sacerdote gli ricorda che il sacramento è la presenza reale di Cristo che può guarire, ma che «la salvezza che reca sempre è quella eterna». Thomas alza le braccia è risponde: «È vero, non ho mai potuto portare Alfie in chiesa. Beh ho portato la Chiesa da Alfie». Padre Gabriele ci racconta che nella stanza di Alfie Thomas gli ha mostrato le preghiere che recita quando veglia su di lui e che «se Thomas si avvicina il bimbo reagisce (in una delle foto scattate il piccolo ha gli occhi aperti). Poi lo bacia ovunque, si vede che lo ama molto». 

Più tardi lo zio di Thomas ci mostra un video appena girato: Alfie alza il braccio da solo, si muove, sbadiglia. In un secondo apre gli occhi. È bellissimo, vive, cresce, lotta. È un’evidenza che solo l’ideologia può oscurare. Thomas commenta: «Lo vedi come è forte?». Ma proprio in quel momento arriva la sentenza definitiva: «Il giudice riassume i motivi per cui la Corte Suprema ha rigettato gli argomenti dei genitori di Alfie riguardo al diritto di spostare Alfie in un ospedale di Roma».

L’ospedale si riempie di polizia più del solito. Thomas è pallido, stanchissimo. Ci abbraccia. La hall si riempie di amici. Circa un’ora più tardi prende la forza, suo padre abbraccia l’ottavo dei suoi nove figli e lo incoraggia mentre sta andando a fare quello che ama poco, parlare alla stampa. Thomas ringrazia chi ha manifestato per suo figlio fuori dall’ospedale. Poi, tremante, si arrabbia per la bugia detta dall'Alder Hey alla polizia per fermare il trasferimento di Alfie giovedì sera. L'ospedale aveva detto che «il bambino era stato posto sotto la tutela della corte». E denuncia «le visite controllate dalla polizia…la sua dignità è stata lesa, è stato separato da sua mamma e suo papà...rubandoci dei momenti preziosi».

Poi spiega che dopo l’ordine ricevuto dall'ospedale di non dormire più nella stanza del bambino «abbiamo visto le infermiere addormentarsi nella sua stanza», con filmati che lo dimostrano. Il ragazzo sottolinea anche l’assurdità di chi sostiene di fare “il miglior interesse di Alfie”, quando abbiamo diverse evidenze del fatto che l’Alder Hey ha agito al contrario», ad esempio, «lasciandolo con i tubi della ventilazione pieni di muffa». Vogliono «eliminarlo perché hanno fallito nella diagnosi», continua. 

Infine, asciugandosi le lacrime, la sfida: «Vogliamo che sappiano che non possono distruggerci, non ci arrenderemo mai. Alfie, la sua famiglia e tutti i nostri sostenitori sono più forti che mai, non ti moleremo mai Alfie». Boato. Non si sa come andrà a finire, ma una cosa si vede già, la quantità di giovani smossi dal sacrificio di questo indomabile “Spartaco” e della sua Kate che sostenuti dalla forza di migliaia di preghiere e aiuti affrontano da mesi ogni giorno avvocati, giornalisti, pressioni senza mai retrocedere. Non solo qui in Gran Bretagna ma anche in Italia, dove ragazzi e famiglie si sono radunati per pregare o vegliare nelle piazze. Questa battaglia nasce da una preferenza di Dio per Alfie, ma non è solo per lui. È per tutti quelli che sono o diventeranno padri e madri e per tutti i loro figli.