Don Seghedoni, il prete felice per i nuovi non praticanti
Don Ivo Seghedoni sostiene che il Covid ci ha fatto la grazia di ridefinire «i confini del popolo di Dio» attraverso «la “sparizione” della “pratica” intesa come partecipazione alla messa». Che per lui è diventata un optional. Insomma, anziché avvicinare i non praticanti, allontaniamo i praticanti...
«Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28). Il più delle volte non ci è chiara la fisionomia di questo “bene” che Dio genera e alimenta nelle anime di coloro che Lo amano. O almeno ci provano. Quando arrivano le prove - il che pare accada molto spesso - si vedono solo la calamità, il dolore, la difficoltà e parlare di bene può sembrare solo amara ironia. E infatti ci voleva la parola di Dio per confermarci quel bene che dapprincipio non si riesce a percepire, ma che poi pian piano fa capolino. La parola della croce, per richiamare ancora san Paolo, non è una sciagura, ma «per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio», mentre è invece giudicata «stoltezza per quelli che vanno in perdizione» (1Cor 1, 18).
La presente pandemia non sfugge alla regola; di fronte ad essa ancora una volta gli uomini si dividono, tra coloro che, pur in mezzo a tutte le sofferenze causate dalla malattia, dalle restrizioni, dalle discriminazioni sempre più palesi, dall’incertezza per il futuro, salutano nella fede la croce come potenza e sapienza di Dio, e quanti invece si scandalizzano, cadendo nella disperazione, cedendo alla paura e abbandonandosi a pratiche compulsive in cerca di chissà quale sicurezza sanitaria.
La riflessione sarebbe alquanto seria, se non fosse che ci è capitato tra le mani uno scritto di don Ivo Seghedoni, docente di Teologia pastorale fondamentale e Pedagogia della Religione presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’Emilia (Modena), il quale il bene lo vede sì, ma a modo suo. Il testo riassume un incontro di aggiornamento per gli insegnanti di religione cattolica; Come ne uscirà la Chiesa? è il titolo dell’intervento di don Seghedoni. E a leggere le sue considerazioni, la risposta non può che essere: a pezzi.
Il succo del discorso, che l’autore aveva già proposto qui nell’aprile dello scorso anno, è il seguente: il Covid-19 ci ha fatto la grazia di diventare tutti cristiani non praticanti. Leggere per credere. «Noi i “cristiani non praticanti” li abbiamo sempre guardati con una certa sufficienza», spiega don Seghedoni. «E abbiamo giudicato la loro fede una fede povera, “benevolmente” l’abbiamo pensata una fede po’ dimessa, alquanto immatura..., forse l’abbiamo ritenuta perfino una fede di comodo, quella fede “fai-da-te” che puoi maneggiare a seconda dell’utilità del momento: comunque una fede non adeguata». E poi, guarda un po’, ironia della sorte «improvvisamente, per tre interi mesi, siamo stati come loro! Siamo stati anche noi, come tanti, dei credenti non praticanti. Fedeli non praticanti! Ci siamo ritrovati così simili a tanti di questi “sconosciuti”: a messa, infatti, non ci siamo più andati, proprio come loro che non ci andavano mai! Non ci siamo potuti andare».
Un bel problema, direte voi. Niente affatto. Una provvidenza (minuscola)! Perché finalmente si è capito che si può essere cristiani anche senza praticare; la Messa (maiuscola) è stata posposta alla salute, con tanto di decreto legislativo «pienamente condiviso e recepito dai vescovi italiani. Ci è stato detto che non andando a messa non avremmo commesso peccato, perché un decreto vescovile ha “sospeso il precetto festivo”. Un precetto che è poi rimasto sospeso: è sconsigliabile ancora oggi, infatti, invitare gli anziani a tornare a messa, le persone che hanno significative patologie, gli immunodepressi. Meglio tenere il precetto festivo sospeso a tutela delle categorie fragili. Chi ha mai pensato ad una cosa simile? Chi avrebbe potuto prevedere che per settimane e settimane non saremmo più andati a messa? Chi avrebbe ipotizzato che questa pandemia avrebbe ricollocato i confini del popolo di Dio, annullando la distanza tra chi pratica e chi non pratica?». Eh già, chi lo avrebbe mai pensato? E chi avrebbe mai pensato che sarebbe stato proprio un sacerdote a gioire di questa “ridefinizione dei confini” dove finalmente la Messa (sempre con la maiuscola) non è poi così essenziale?
Eppure è tutto vero. Lui, don Seghedoni esulta perché «in questa situazione, siamo stati liberati da un tragico errore: quello di considerare la pratica dell’Eucarestia come se fosse tutta la religione! [...] In altre parole: la “sparizione” della “pratica” intesa come partecipazione alla messa, dissolve i confini visibili, quelli che definivano con chiarezza l’essere dentro e l’essere fuori. Improvvisamente e forse provvidenzialmente, siamo ricondotti alla consapevolezza che tutti i battezzati appartengono al Popolo di Dio [...]. Con una diversa pratica. Che non è più la messa. Almeno non solo la messa».
Forse don Seghedoni non si rende conto che sta sparando su un cadavere e che la sua trovata della ridefinizione dei confini non è esattamente un eureka. Praticamente non è rimasto più nessuno che identifichi il cattolico con quello che frequenta la Messa (mi raccomando, don: la maiuscola!). Non l’ha mai fatto l’ala “progressista”, che dalla notte dei tempi stigmatizza come bigotti quelli che per sbaglio capitano alla Messa una volta l’anno, per il nonno deceduto. Ma anche sul lato “conservatore”, le cose in quest’ultimo anno si sono alquanto complicate: da un po’ di tempo a questa parte si prova comprensione per quanti non riescono più ad andare in chiesa sotto gli occhi puntati dei vigilantes con pettorina o fascia gialla, che controllano come prendi la Comunione, se sei seduto al posto giusto o se hai l’ardire di inginocchiarti alla consacrazione. Evidentemente chi ha mantenuto la fede non riesce proprio ad accettare queste parodie sanitariamente corrette.
Ma a don Seghedoni interessa prendere il pretesto del Covid per umiliare ulteriormente la fede di coloro che invece a Messa hanno continuato ad andare, credendo che «la tua grazia vale più della vita» (Sal 62, 4). Perché, per lui, la Messa è diventata un optional, un gingillo prezioso, ma non così essenziale, dal momento che «noi, quelli che “erano dentro”» abbiamo scoperto di condividere la stessa fede di coloro che “erano fuori”, «se rispettiamo insieme gli uni e gli altri una differente pratica, se viviamo una condizione decisiva. Che non si misura più a partire dallo spartiacque tra “vado a messa” o “non vado a messa”».
Semplicemente una «differente pratica»; come la Tredicina a Sant’Antonio o il 5xmille alla Caritas. Un programma di autodemolizione di tutto rispetto: anziché avvicinare i non praticanti, allontaniamo i praticanti. E così scopriamo di essere tutti insieme appassionatamente, lontano dalla casa paterna. Insomma, la nota parabola del figliol prodigo (cf. Lc 15, 11-32) è ormai decisamente datata, epoca pre-Covid; bisognerebbe ormai aggiornare la “sceneggiatura”, con il padre che caccia lontano da casa anche il figlio maggiore, per fargli capire quanto è bello vivere lontano dalla casa paterna.