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LA RIFORMA

Divorzio lampo, cortocircuito di Cartabia e centrodestra

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Dal 28 febbraio in vigore le norme che consentiranno di velocizzare separazione e divorzio, richiedendoli con un unico atto davanti al giudice. Norme incluse nella riforma, sotto Draghi, della cattolica Cartabia e di cui il Governo Meloni ha anticipato l’entrata in vigore. Scelte inspiegabili, che sviliscono ulteriormente il matrimonio.

Attualità 22_02_2023

Dall’importanza fondamentale del matrimonio al divorzio sprint di Renzi e, ora, al divorzio immediato della cattolica Cartabia di cui il Governo Meloni ha anticipato l’entrata in vigore al 28 febbraio. Ma il matrimonio e la stabilità familiare non erano pilastri non negoziabili delle forze di centrodestra?

Le norme previste dalla Riforma Cartabia si applicheranno alle cause di separazione e divorzio, velocizzandole. Invece, è prevista solo dall’ottobre 2024 l’introduzione del tribunale della famiglia, istituito ad hoc per questo tipo di procedimenti. Una palese contraddizione, a nostro modo di vedere. Le nuove norme sono tra quelle contenute nella legge-delega sul processo civile messa a punto dal Governo Draghi. Tale riforma, prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), era finalizzata principalmente alla riduzione dell’arretrato pendente dinanzi ai tribunali ordinari e alle corti d’appello e ad assicurare una diminuzione dei tempi di giudizio. È stata una scelta chiara di Marta Cartabia quella di velocizzare e snellire separazione e divorzio.

L’entrata in vigore delle nuove norme era prevista per la maggior parte - incluso l’inserimento di un vero e proprio divorzio immediato - a partire dal 30 giugno 2023 (qui una tabella esplicativa). Lo scorso 22 dicembre, con un emendamento alla legge di Bilancio, il Governo Meloni ha invece deciso di anticipare l’applicazione del rito unico per separazioni e divorzi e la maggior parte delle disposizioni previste dalla riforma. Perché? Si sarebbero potute anticipare altre parti della riforma e soppesare invece gli effetti di un aspetto che, inserito nel progressivo svilimento del matrimonio, rischia di contribuire alla banalizzazione finale della famiglia e delle responsabilità dei coniugi. Ricordiamo che i temi della famiglia sono di stretta competenza nazionale, non dipendono dall’Unione europea (dunque, non vale il “ce lo chiede l’Europa”).

Con le nuove norme si potranno richiedere, al contempo, separazione e divorzio giudiziale. Per ottenere il divorzio, la sentenza di separazione sullo status dovrà essere passata in giudicato. Sarà, inoltre, necessario che la non-convivenza sia ininterrotta. La competenza territoriale sarà quella di residenza dei figli (se presenti), altrimenti sarà quella del convenuto; l'udienza del giudice dovrà tenersi entro 90 giorni; i figli dovranno sempre essere ascoltati. La riforma prevede anche il deposito di un “piano genitoriale” che riguardi le attività quotidiane dei figli, fatto in sé molto positivo. Il giudice procederà comunque a un invito alla mediazione e potrà proporre una definizione motivata, tenendo conto di tutte le circostanze e delle risultanze istruttorie acquisite. Sarà lo stesso giudice a nominare, a garanzia degli interessi dei minori, un curatore speciale. Ovviamente ci sono le preoccupazioni degli operatori per la mancanza di investimenti, con le carenze in pianta organica sia dei giudici sia del personale amministrativo, ma il punto fondamentale è un altro: lo scivolamento del matrimonio, pilastro naturale che preesiste allo Stato, a orpello associativo temporaneo di cui il legislatore può disporre a proprio piacimento.

È bene ricordare le tappe di questo declino. Nel 1970 venne approvata la legge Fortuna-Baslini, che ha introdotto il divorzio nell'ordinamento giuridico italiano, con l'opposizione della Democrazia Cristiana, del Movimento Sociale Italiano e con i voti favorevoli di tutte le sinistre, dei liberali, socialdemocratici e repubblicani; con il referendum del 12 maggio 1974, il 59% dei votanti si espresse per mantenere il divorzio e così la legge Fortuna-Baslini rimase in vigore; con la riforma del 1987 i tempi del divorzio passarono da 5 a 3 anni. Il 23 ottobre 2003, nonostante un testo condiviso da una parte del centrodestra e da tutte le opposizioni, il tentativo di introdurre il “divorzio breve” fallì alla Camera dei Deputati, grazie a una maggioranza trasversale di partiti ed esponenti politici,

Purtroppo invece, a 45 anni dall’introduzione del divorzio in Italia, sempre il “divorzio breve” viene promosso dal cattolico Matteo Renzi e approvato nel voto finale della Camera il 22 aprile 2015, con 398 sì, 28 no e 6 astenuti (un ampio schieramento, con esponenti di centrodestra inclusi). Da allora, per il divorzio bastano solo sei mesi, se la separazione è consensuale; e al massimo un anno se si decide di ricorrere al giudice, indipendentemente dalla presenza o meno di figli. La procedura di separazione giudiziale è piuttosto complessa e, in molti casi, non permette una conclusione rapida del procedimento; perciò la Riforma Cartabia si propone di ridurre i tempi medi di 8-12 mesi.

È legittimo chiedersi quale sia stata la vera ragione che ha spinto l’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia, a inserire negli impegni del Pnrr italiano anche un sostanziale “divorzio immediato”. Inoltre, bisogna chiedersi perché i partiti di centrodestra che sostenevano il Governo Draghi abbiano snobbato questa riforma. E infine, stante anche il fatto che Fratelli di Italia non sosteneva il precedente esecutivo, perché senza batter ciglio si è deciso di anticipare l’introduzione di questa scellerata velocizzazione del divorzio?