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SACRAMENTI ALL'AMBROSIANA

Divorziati risposati, l'ipocrisia della diocesi di Milano

La curia milanese ritira (apparentemente) il documento “aperturista” di don Aramini, ma non i suoi contenuti. Il solo “malinteso” è consistito nello svelare le carte e il (loro) vero problema sono i “pelagiani” difensori della dottrina. Al divorziato risposato si chiede tutto, tranne il pentimento.

Editoriali 23_08_2022
nozze civili

Saranno state le feriae augustales, durante le quali – si sa – anche gli uffici delle curie ecclesiastiche si svuotano; sarà stata la personalità un tantino piena di sé di don Michele Aramini. Fatto sta che domenica 14 agosto don Aramini, ufficialmente motu proprio, inviava a tutti i decani della diocesi di Milano il pro-manuscripto di venticinque pagine di cui abbiamo parlato (vedi qui). Il testo era accompagnato da un messaggio dello stesso autore (e di nessun altro), responsabile dell’Ufficio Diocesano per l’Accoglienza dei Fedeli Separati, che promuoveva la lettura e diffusione di quella che veniva considerata una vera e propria guida all’interpretazione e applicazione di Amoris Laetitia. Passati quattro giorni, qualche ora dopo la pubblicazione dell’articolo su La Nuova Bussola Quotidiana, il diretto superiore di don Aramini, don Mario Stefano Antonelli, Vicario Episcopale per l’Educazione e la Celebrazione della Fede (perché a Milano ci sono più uffici di curia che preti), fa una retractatio in piena regola, chiedendo perdono per il testo, «frutto di un malinteso».

Quale malinteso? Nessuna speranza che si tratti di una divergenza di don Aramini dalla linea della diocesi rispetto al contenuto. Don Antonelli, nel messaggio di scuse, rimanda i confratelli sacerdoti ad un libretto pubblicato dal Centro ambrosiano dal titolo Accompagnare, discernere, integrare. Percorso formativo su Amoris lætitia cap. VIII, prefato dall’Arcivescovo e introdotto dallo stesso don Antonelli. Un testo gemello di quello di don Aramini, ma più ossequioso della metodologia larvatus prodeo.

Analogie e differenze tra i due scritti? Iniziamo dalle prime. Entrambi rimandano alla Lettera dei vescovi della regione pastorale di Buenos Aires, del 5 settembre 2016, approvata da papa Francesco mediante una lettera al metropolita di Santa Fe de la Vera Crux, mons. Sergio Alfredo Fenoy, delegato della regione Pastorale di Buenos Aires. È questo testo ad essere, per entrambi, il punto di riferimento fondamentale per la corretta interpretazione di Amoris Laetitia. Nel testo Accompagnare, discernere, integrare si afferma che «l’Arcivescovo ritiene sufficiente la recezione del dettato e del senso di Amoris Laetitia, in specie del suo capitolo VIII» secondo l’interpretazione data appunto da quella lettera.

È questo l’orientamento fondamentale, rispetto al quale la diocesi di Milano stigmatizza «alcuni scomposti fai da te, ancora diffusi nelle comunità cristiane e nel clero». Il «fai da te di avanguardia» che pretende di «modificare tutto senza discernimento»; quello di retroguardia, che si avvinghia «in modo ossessivo a un grappolo di dottrine», pretendendo «dall’alto di qualche posizione ieratica e clericale, di dettare legge e imporla, invece di annunciare il Vangelo». E infine il fai da te «più insidioso, che più trasuda di clericalismo», ossia il sostituirsi «nel discernimento ai fratelli e alle sorelle, che invece sono “il” soggetto del discernimento».

Ora, bisogna ricordare che in quello scritto, che papa Francesco giudicava «molto buono» e capace di «spiegare pienamente il significato del capitolo VIII di Amoris Laetitia», si afferma che la continenza può essere proposta, quando vi siano circostanze che la rendano fattibile. Ma «in altre circostanze più complesse, e quando non si è riusciti a ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata non può essere di fatto realizzabile». In queste situazioni, «se si arriva a riconoscere che in un caso concreto ci sono limitazioni che attenuano la responsabilità e la consapevolezza (cf. 301-302), in particolare quando una persona considera che cadrebbe in un’ulteriore mancanza danneggiando i figli nati dalla nuova unione, la Amoris Laetitia apre alla possibilità all’accesso ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia».

Ed infatti è precisamente questa la posizione del capitolo I criteri del discernimento del libretto consigliato da don Antonelli. Dopo le ormai consuete e colorite accuse a chi si appisola «nella comodità di un “si è sempre fatto così” o di un “l’importante è ricordare la dottrina”»; dopo aver respinto quanti sono «pelagiamente ossessionati dall’integralità morale in una forma che dimentica che il cuore del Vangelo è la docilità del bambino, con i suoi limiti (a volte insuperabili)»; dopo aver magicamente trasformato una convivenza more uxorio in una «relazione coniugale attuale», anche il libretto conclude che, nel percorso di discernimento, si può proporre la continenza, ricordando però che «i grigi della vita» potrebbero presentare «circostanze complesse per le quali l’opzione menzionata non è realizzabile». In questo caso la valutazione di tali circostanze e attenuanti possono portare a sospendere un giudizio di colpevolezza e così «a non identificare la situazione detta “irregolare” con “il peccato mortale”».

Il punto decisivo del testo guida della diocesi di Milano sta nel fatto che la decisione ultima è in capo alla persona guidata nel discernimento. È lei a decidere della sua colpevolezza, della fattibilità o meno della continenza; e dunque di decidere della propria riammissione alla vita sacramentale. Nel capitolo Riconciliazione sacramentale e partecipazione piena all’Eucaristia, troviamo un paragrafo assai significativo, che di fatto affratella tra loro il testo della diocesi, quello di don Aramini e le indicazioni dei vescovi della regione di Buenos Aires: «In un determinato discernimento può accadere che questo fratello o questa sorella, accompagnato seriamente da una guida, […] avverta che quella possibilità [la continenza, n.d.a.], laddove fosse immaginata, non è praticabile; e percepisca, insieme, che non impegnandosi in questa “astensione” o “continenza” sessuale, non cade in peccato mortale proprio per via della presenza di condizioni concrete, inscritte nella propria storia, che attenuano o addirittura, in certi casi, annullano la colpevolezza e l’imputabilità».

E infatti, non viene chiesta, a chi vive in situazione irregolare, una confessione dell’adulterio, ma dapprima una confessio laudis, una lode grata «di come il Signore gli ha usato misericordia nella relazione di amore della nuova unione», come pure per la responsabilità verso i figli, per la pace nei confronti del coniuge con cui si è separato, eccetera. E poi la confessio vitae: «Non il pentimento per la nuova unione, ma per quanto in questa relazione ancora resta distante dalla carità che lo Spirito infonde». Pentimento anche per «il fallimento del matrimonio canonico» o per «l’eventuale resistere di rabbia e rancore nei confronti del coniuge del matrimonio canonico». Tutto fuorché confessare l’adulterio, l’unione sessuale al di fuori del matrimonio, che ormai ha ricevuto il via libera dal discernimento di attenuanti della responsabilità.

Ma allora, dove sta la differenza tra questo volumetto e il pro-manuscripto di don Aramini? Semplicemente nel fatto che quest’ultimo è stato troppo esplicito. Scrivere troppo chiaramente che «in ogni caso l’assenza di continenza non impedisce l’eventuale accesso ai sacramenti» o indicare apertis verbis strategie per infinocchiare il parroco “indietrista” era un po’ troppo. Anche il caso dell’anziano malato di Alzheimer che non può fare a meno di vivere la sessualità suonava piuttosto stucchevole, soprattutto dopo che lo stesso autore aveva esortato a parlare meno della sessualità ed avere più pudore… Meglio essere più aderenti allo stile larvatus prodeo e lasciare che queste deduzioni le tiri chi di dovere: il soggetto del discernimento, l’accompagnatore, persino anche qualche giornalista che, almeno in agosto, avrebbe voluto scrivere qualcosa di più distensivo. La retractatio di don Antonelli è, a tutti gli effetti, un distillato di ipocrisia.