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Discese agli inferi - Il testo del video

Cosa significa che Cristo discese agli inferi e cosa sono questi inferi? Per sgomberare il campo dagli equivoci san Tommaso risponde anzitutto che dobbiamo capire in quali modi Cristo è stato presente: negli effetti e con il suo essere.

Catechismo 22_06_2025

Oggi affrontiamo la verità, molto particolare oltre che fraintesa, contenuta nel Simbolo della nostra fede, che ci dice che il Signore discese agli inferi. Che cosa significa che Cristo discese agli inferi e cosa sono questi inferi? Di quali inferi parliamo? Questo è il contenuto di questa lezione che corrisponde alla quæstio 52 della III parte della Summa Theologica di san Tommaso d’Aquino. 

Partirei con l’articolo 2 che ci permette subito di togliere un equivoco: cosa intendiamo quando parliamo della discesa agli inferi. Parliamo dell’inferno? Vediamo che san Tommaso dà una risposta articolata, come ormai siamo abituati a conoscere attraverso la sua opera teologica. San Tommaso ci dice anzitutto che dobbiamo capire in quali modi Cristo è stato presente. Questa presenza può avvenire in due modi: il primo modo è per gli effetti, il secondo modo è con il suo essere.

Se guardiamo agli effetti, in particolare della sua Passione, san Tommaso ci dice: in questo senso, cioè con gli effetti della sua persona, della sua vita, della sua Passione, si può dire che Cristo discese in ogni parte dell’inferno, però con effetti diversi. Cioè, se noi consideriamo gli effetti della vita del Signore, della sua realtà divino-umana e dei misteri della sua vita, possiamo dire che Cristo è sceso in ogni parte dell’inferno. Quindi in questo senso gli inferi coincidono proprio con l’inferno. Però con effetti diversi. E spiega: «infatti, nell’inferno dei dannati egli produsse l’effetto di confondere la loro incredulità e la loro malizia. A coloro invece che si trovavano in purgatorio diede la speranza di raggiungere la gloria. Ai santi patriarchi, poi, che erano all’inferno solo per il peccato originale, infuse la luce della gloria eterna» (III, q. 52, a. 2). 

È un paragrafo molto denso. Anzitutto perché vedete che nella concezione di san Tommaso, quando si parla di inferno, si ha un’accezione più ampia della nostra. Noi quando parliamo di inferno, parliamo dell’inferno dei dannati. Punto. Non è sbagliato, basta capirsi. Quando san Tommaso parla dell’inferno, invece, vedete che porta tre realtà. La prima è quella dei dannati – su questo nessuna obiezione; ma c’è anche il purgatorio, che quindi è in qualche modo legato alla realtà dell’inferno, pur non essendo l’inferno dei dannati; e poi l’inferno dei patriarchi o il limbo dei Padri. Sono tre realtà molto diverse tra loro, ma che san Tommaso raggruppa in qualche modo nella categoria dell’inferno. Non perché si parli di tre tipologie di dannazione, evidentemente, ma perché in queste tre realtà cosa manca ancora? Manca la visione beatifica. Dunque, tutto ciò che è al di fuori della visione beatifica, al di fuori del paradiso, è in qualche modo una privazione e dunque appartiene a quella dimensione che è propria dell’inferno. Nell’inferno dei dannati questa privazione è radicale e definitiva, a causa del rifiuto di Dio e di Gesù Cristo da parte delle anime dannate. Nel caso del limbo dei padri, essa è solo parziale, momentanea, perché – come avremo modo di vedere ad abundantiam in questa lezione – i cieli ancora non sono aperti. Nel caso delle anime del purgatorio, invece, è momentanea in quanto esse non sono ancora purificate a sufficienza per entrare in questa gloria.

In queste tre dimensioni – molto diverse tra loro – dell’inferno, che hanno in comune la privazione della gloria, della visione beatifica, san Tommaso dice che gli effetti di Cristo, gli effetti della sua Passione hanno ridondato in tutte e tre, ma con effetti completamente diversi. Dunque, nei dannati la luce della Risurrezione è arrivata, ma non per la loro salvezza, bensì, dice, «per confondere la loro incredulità e la loro malizia». Come possiamo intenderlo? Per avere un’idea, pensate ad una persona che ha male agli occhi non sopporta la luce. La luce in se stessa è un bene, ma per la persona che ha male agli occhi vedere la luce è una pena. Quello che avviene sul piano del corpo non per colpa propria avviene invece sul piano delle anime per colpa propria. La luce di Cristo diventa in qualche modo un tormento maggiore, una confusione dell’incredulità e della malizia di chi Cristo ha rifiutato. Perché? Perché vedono palesemente il trionfo di Cristo.

Per quanto riguarda le anime del purgatorio questa luce giunge per dare loro la speranza di raggiungere la gloria; dunque, è una luce di consolazione, di conforto. E per quanto riguarda i patriarchi, quindi il cosiddetto limbo dei Padri, viene infusa la luce della gloria eterna. Dunque vedete tre step diversi.

C’è poi un secondo modo di essere presente, che è quello che intendiamo più comunemente quando parliamo di presenza, cioè l’essere presenti col proprio essere. Dice Tommaso: «In questo modo l’anima di Cristo discese solo in quella parte dell’inferno in cui erano detenuti i giusti» – il limbo dei Padri, per capirci – «poiché volle visitare anche localmente, con la sua anima, coloro che mediante la grazia visitava interiormente con la sua divinità» (Ibi). Dunque, con la discesa agli inferi, l’anima del Signore (perché il corpo è nel sepolcro) giunge propriamente solo nel limbo dei Padri, per «visitare anche con la sua anima umana coloro che già visitava interiormente con la sua divinità». Dunque, il limbo dei Padri era in qualche modo già visitato dalla divinità del Signore a loro conforto, a loro sostegno, per la loro speranza; ma con la discesa agli inferi abbiamo la visita con l’anima gloriosa, radiante di Cristo.
Quando parliamo di “discesa agli inferi” parliamo quindi di questo grande mistero.

Ora, c’è una precisazione che vi volevo leggere nella risposta alle obiezioni, e riguarda il “seno di Abramo”. Sicuramente avrete già sentito questa espressione. Cosa si intende con “seno di Abramo”? San Tommaso risponde: «Il seno di Abramo può essere considerato sotto due aspetti: primo, dal punto di vista dell’assenza della pena del senso. E sotto questo aspetto ad esso non si addiceva il nome di inferno, né vi si riscontravano dei dolori. Secondo, dal punto di vista della privazione della gloria sperata. E da questo lato esso presentava l’aspetto di inferno e di dolore» (III, q. 52, a. 2, ad 4). Fa dunque una precisazione su quanto abbiamo accennato all’inizio.

Perché il seno di Abramo, il limbo dei Padri, è posto nell’inferno, pur non essendo chiaramente la condizione dei dannati? San Tommaso ci spiega in che cosa è simile all’inferno (dei dannati) e in che cosa differisce. È simile all’inferno perché, come vi accennavo, c’è la privazione della gloria sperata, quindi – dice – sotto questo aspetto c’è una somiglianza con l’inferno. Ma dall’altra parte manca completamente la pena del senso, perché le anime dei giusti non hanno compiuto delle colpe meritevoli della pena eterna. Hanno sperato nella Passione liberatrice del Signore, anche se solo in figura, e quindi sotto questo aspetto non c’è una uguaglianza con l’inferno perché manca, appunto, questa pena del senso. 

Nel primo articolo che abbiamo momentaneamente saltato per centrarci subito sull’argomento, san Tommaso espone gli argomenti di convenienza, di opportunità, di sapienza per cui Dio ha disposto che Cristo scendesse agli inferi con la sua anima. E dà tre ragioni. Vediamo subito la prima: «poiché egli era venuto a subire i nostri castighi per liberarci da essi secondo le parole di Isaia: “egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4). Ora col peccato l’uomo non era incorso solo nella morte corporale, ma anche nella discesa agli inferi. Era quindi opportuno che, come Cristo morendo ci liberò dalla morte, così discendendo agli inferi ci liberasse da tale degradazione» (III, q. 52, a. 1).

Il primo argomento è quindi un parallelo con la morte. Vediamo che la strategia di Dio nella nostra Redenzione è stata quella di far assumere al Figlio incarnato le nostre sofferenze, i nostri dolori, cioè i castighi che noi abbiamo meritato con i nostri peccati e col peccato originale. Dunque, non i peccati, ma i castighi dovuti al peccato, le pene che derivano dal peccato. E abbiamo visto la scorsa volta che la morte è proprio la pena del peccato originale; quindi Cristo ha assunto su di sé la morte per sconfiggerla; ma anche la privazione della gloria, quindi la discesa delle anime agli inferi, è una pena del peccato originale. È una cosa che facciamo un po’ fatica a cogliere perché siamo tutti nati e cresciuti dopo Cristo e quindi per noi, potremmo dire, è automatico pensare che i cieli sono aperti, ma non era così: prima del mistero della Redenzione i cieli non erano aperti e quindi la gloria cui Dio aveva chiamato tutti gli uomini nella Creazione non era più “disponibile”. Il peccato originale ci aveva drammaticamente privati della gloria. Dunque, la morte è quello che noi percepiamo di più come pena del peccato originale, ma c’è anche la privazione della gloria. Il Signore in qualche modo ha voluto prendere questa privazione scendendo egli stesso agli inferi.

Seconda ragione di opportunità, di convenienza della discesa agli inferi: «poiché era giusto che, una volta sconfitto il demonio con la Passione, Cristo ne liberasse i prigionieri detenuti nell’inferno». Cristo ha vinto il demonio con la sua Passione, ha schiacciato la sua testa; adesso, con una immagine bellica, sconfitto il nemico, si liberano i prigionieri. È un’immagine molto bella, anzitutto perché la liberazione dei prigionieri ci comunica un’affinità con il liberatore: non gli eravamo del tutto estranei. Nessun conquistatore libera dei prigionieri a cui non ha nessun interesse. Invece, Cristo ha pagato per noi precisamente per ottenerci questa liberazione. E secondariamente, questa idea che – ripeto – noi facciamo un po’ fatica a cogliere, di una prigionia del genere umano sotto il potere di Satana. Satana non era ancora stato sconfitto. Oggi è sconfitto, sebbene la sua azione si prolunghi nel mondo, ma non ha più il potere di privare della gloria eterna le anime dei giusti, le anime di coloro che muoiono nel Signore. Quindi il suo potere veramente più terribile e più tirannico non è quello della morte o della malattia, ma proprio quello di privarci della gloria. Sotto questo aspetto è stato sconfitto definitivamente. Dunque, questa liberazione dei prigionieri è il grande segno di questa vittoria definitiva di Cristo.

Terzo: «per mostrare la sua potenza nell’inferno, visitandolo e spandendovi la sua luce, come l’aveva mostrata sulla terra, vivendo e morendo su di essa». Dunque, è per l’universalità dell’effusione di questa luce che era opportuno che Cristo scendesse agli inferi; tant’è vero che san Paolo (che qui viene citato da san Tommaso), nel secondo capitolo della Lettera ai Filippesi (Fil 2, 10, è un testo molto noto) dice: «Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra», a indicare appunto l’universalità della sua vittoria e dell’espandersi della sua luce. 

Nella risposta alla prima obiezione, san Tommaso fa una ulteriore importante precisazione su cui volevo soffermarmi. «Il termine inferi o inferno ha riferimento al male della pena, non al male della colpa. Perciò era opportuno che Cristo vi discendesse, non perché lui meritasse la pena, ma per liberare quelli che dovevano subirla» (III, q. 52, a. 1, ad 1). Qui ci rifacciamo al primo argomento: perché Cristo è disceso agli inferi? Non perché egli avesse commesso una colpa e quindi meritasse quella pena, ma per liberare coloro che questa pena dovevano subirla. E vedete questa differenza: questi inferi di cui parliamo hanno a che fare col male della pena, non con il male della colpa. È un’altro modo per dire quanto abbiamo già affermato ripetutamente in questa lezione.

Vediamo adesso l’articolo 3, un articolo particolare ma molto interessante. Il titolo di questo articolo dice così: Se Cristo sia stato tutto intero nell’inferno, cioè negli inferi. Che senso ha porsi questa domanda? Dobbiamo comprenderla alla luce di quanto abbiamo visto nelle catechesi precedenti, in particolare quando abbiamo parlato della sepoltura di Cristo. Se ricordate, parlando della sepoltura, abbiamo detto che la morte reale del Signore, che consiste proprio nella separazione dell’anima dal corpo, aveva però una particolarità: ciascuna dimensione della sua umanità, cioè il corpo e l’anima, pur essendo separate tra di loro, rimanevano unite alla divinità, nell’unica persona del Verbo. Dunque, nel sepolcro noi abbiamo il corpo unito alla sua divinità. Quando noi diciamo che il Signore con la sua anima discende agli inferi, stiamo dicendo chiaramente che quest’anima discende agli inferi unita alla divinità, unita dunque all’unica persona del Verbo. Già potete intuire che la domanda non è oziosa, perché nasconde il mistero dell’unione ipostatica. 

Andiamo dunque a vedere come san Tommaso articola questo tema. Prima recupera un principio, che è importante ricordare, per cui altro è l’ipostasi (la persona) e altro è la natura. Ne abbiamo parlato a lungo riguardo al mistero dell’unione ipostatica: la persona (l’ipostasi) è una, è la persona del Verbo; le nature di questa ipostasi sono due, la natura umana e la natura divina, la natura divina generata dal Padre prima di tutti i secoli, la natura umana generata nel tempo dalla Vergine Maria e assunta dalla persona del Verbo. Ora, dice Tommaso, «alla morte di Cristo, sebbene l’anima fosse separata dal corpo, né l’una né l’altro tuttavia si separarono dalla persona del Figlio di Dio» (III, q. 52, a. 3). È quello che abbiamo appena detto. Perché non si sono separati dalla persona? Perché sono rimasti ipostaticamente uniti al Verbo. «Perciò si deve concludere che nei tre giorni dalla sua morte, Cristo fu tutto intero nel sepolcro, poiché tutta la sua persona era là per il corpo ad essa unito» (Ibi). Anche di questo abbiamo parlato. Ricordate? San Tommaso diceva: il simbolo della fede cosa ci dice? Che Cristo fu sepolto. Non dice: il corpo di Cristo fu sepolto, ma: Cristo fu sepolto. Cioè la persona di Cristo fu sepolta. Perché? Perché quel corpo sepolto continuava a essere unito ipostaticamente alla persona del Verbo. «E così pure», continua Tommaso, «fu tutto intero nell’inferno, poiché tutta la persona di Cristo era là a motivo dell’anima ad essa unita. E Cristo», aggiunge, «era anche tutto intero in ogni luogo in forza della natura divina» (Ibi). Quest’ultima affermazione la mettiamo un attimo tra parentesi, ma intanto notiamo il parallelo: come possiamo dire che Cristo fu sepolto – la persona tutta intera di Cristo era nel sepolcro, giaceva nel sepolcro, a motivo dell’unione ipostatica del corpo con la persona del Verbo che permaneva –, così, permanendo questa unione anche con l’anima – quindi l’anima unita alla persona del Verbo e alla sua divinità – Cristo scese tutto intero nel sepolcro.

Questo «tutto intero», adesso vediamo una precisazione, a che cosa si riferisce? Cos’è che resta tutto intero, cos’è che resta integra? La persona. Infatti, san Tommaso ci dice, nella risposta alla prima obiezione: «Il corpo di Cristo che era nel sepolcro era una parte non della persona increata, ma della natura umana assunta. Perciò il fatto che il corpo di Cristo non discese all’inferno» (perché non discese all’inferno? Perché rimase nel sepolcro), «non esclude che vi sia disceso Cristo tutto intero, ma prova soltanto che non vi discese tutto ciò che appartiene alla natura umana» (III, q. 52, a. 3, ad 1).

Testo importantissimo: qui abbiamo veramente tutto il mistero della persona del Verbo e dell’Incarnazione. San Tommaso ci dice che l’integrità, quel «tutto intero» di cui stiamo parlando, non si riferisce alla natura umana assunta, perché è chiaro che la natura umana assunta ha subito con la morte una separazione dell’anima e del corpo. Non possiamo dire che Cristo scese agli inferi con il suo corpo. Tuttavia, dobbiamo (non solo possiamo) dire che Cristo discese tutto intero agli inferi, perché quell’anima che è discesa era l’anima umana del Verbo, così come il corpo che permaneva nel sepolcro era il corpo umano del Verbo, della persona del Verbo – e la persona del Verbo non è divisa. 

Ancora, guardate la risposta alla seconda obiezione: «L’unione dell’anima con il corpo costituisce la totalità della natura umana, non la totalità della persona divina. Una volta quindi distrutta con la morte l’unione dell’anima con il corpo, Cristo rimase nella sua totalità. Non rimase però nella sua totalità la natura umana» (III, q. 52, a. 3, ad 2). 

L’unione dell’anima e del corpo – in Cristo, attenzione, perché in Cristo la persona è la persona del Verbo, non c’è una persona umana, ma la persona del Verbo che ha due nature –, l’unione dei due costituisce la totalità della natura umana che viene disgregata con la morte, ma non costituisce la totalità della persona divina. La persona divina non viene toccata dalla morte, possiamo dire, permane nella sua totalità, nella sua integrità. Dunque, laddove si trovano l’anima e il corpo separati, lì continua ad essere presente tutta la persona del Verbo.
È un tema che può sembrare molto tecnico, ma potete intuire quanto sia importante non sbagliare su questo punto, altrimenti salta tutto il senso dell’unione ipostatica.

Avevamo messo tra parentesi quest’affermazione del corpo dell’articolo 3, che riprendo: «Cristo era anche tutto intero in ogni luogo, in forza della natura divina». Noi sappiamo che due sono le nature unite alla persona del Verbo: l’umana e la divina. L’umana soggiace appunto all’umanità. Dal punto di vista della natura umana, Cristo, se era presente qui, non era presente là e il corpo, se era nel sepolcro, non era altrove; l’anima, se era agli inferi, non era altrove. Ma la persona del Verbo ha una natura divina. E san Tommaso ci dice che in forza di questa natura divina, che non è creata, non è quindi soggetta allo spazio e al tempo, Cristo è tutto intero in ogni luogo. Nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso spiega: «La persona di Cristo è tutta in ogni luogo, ma non vi è totalmente: poiché non è circoscritta ad alcun luogo. Anzi, neppure tutti i luoghi presi insieme sono in grado di abbracciare la sua immensità, ma è piuttosto la sua immensità ad abbracciare tutte le cose» (III, q. 52, a. 3, ad 3). 

Quando diciamo che Dio è presente ovunque (che è assolutamente vero) non lo dobbiamo intendere come per tutte le realtà create che sono sotto la nostra esperienza, per cui essere in un luogo vuol dire essere circoscritti in un luogo. Pensate anche alla grammatica. Possiamo dire: Tizio è a casa, Tizio è in ospedale, Caio è in macchina... ci dice questo essere dentro uno spazio che circoscrive, la mia presenza qui è circoscritta in uno spazio. Quando invece parliamo di Dio, dobbiamo un po’ cambiare il vocabolario, perché Dio, quindi la divinità di Cristo, non è circoscritta in uno spazio. Quando diciamo che è presente ovunque, non dobbiamo pensare che è circoscritto in ogni spazio. Anzi, qui san Tommaso ha un’espressione bellissima, geniale: «Tutti i luoghi presi insieme non sono in grado di abbracciare la sua immensità». La grandezza della realtà creata (la natura, lo spazio...) non è in grado di contenere l’immensità della divinità. È vero invece il contrario. Ci dice Tommaso: «è piuttosto la sua immensità», cioè l’immensità di Dio, «ad abbracciare tutte le cose». Qui si rovescia la prospettiva: è un aiuto per farci comprendere queste relazioni che spesso non sono oggetto della nostra riflessione, che tante volte ci fanno dire anche un po’ delle sciocchezze. 

Cosa vuol dire che Dio è presente ovunque? E cosa vuol dire, allora, che Dio è presente in ogni tempo, anche (poiché spazio e tempo sono le due coordinate della creazione e della creaturalità)? Vuol dire che è lo spazio a essere in Dio, non Dio nello spazio; che è il tempo a essere in Dio, e non Dio in ogni tempo. Per capirci (perché noi abbiamo esperienza di ciò che è umano, di ciò che è creato, non di ciò che è divino, ovviamente), per esprimere l’immensità di Dio diciamo che Dio è in ogni luogo e in ogni tempo, ma in realtà dovremmo dire che ogni luogo e ogni tempo sono in Dio. È Dio il grembo che contiene le realtà create e quindi che contiene lo spazio e il tempo. 

La prossima volta, con gli articoli che vanno dal 5° all’8°, che chiudono la quæstio 52, risponderemo alla domanda: chi ha liberato il Signore scendendo agli inferi? Quali sono i soggetti, i prigionieri di cui abbiamo parlato prima, che sono stati liberati dalla sua discesa agli inferi?