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Ora di dottrina / 166 – La trascrizione

La morte di Cristo – Il testo del video

Non solo la passione di Gesù ma anche la sua morte ha diverse ragioni di convenienza. Quella fondamentale sta nella soddisfazione, cioè nella riparazione della giustizia violata. Morte corporale e morte spirituale. Vincere la morte con Cristo: la risurrezione.

Catechismo 08_06_2025

Proseguiamo le nostre catechesi sui misteri della vita del Signore. Oggi affrontiamo la quæstio 50 della III parte della Summa Theologiæ che tratta della morte di Cristo. Abbiamo dedicato diverse ore di dottrina alla passione del Signore, ora ci concentriamo sulla sua morte. San Tommaso vi dedica sei articoli, ne vedremo alcuni.

L’art. 1 è la risposta alla domanda se la morte di Cristo fosse conveniente. Di nuovo vediamo il ritorno di questo termine, “convenienza”: non c’è una necessità in Dio di patire o non patire, morire o non morire, ma c’è una sapienza. Dunque, noi creature umane, dotate di intelletto, di intelligenza, e illuminate dalla fede, in qualche modo ci nutriamo della sapienza che è sottesa a ogni scelta che Dio ha fatto nella storia della sua Incarnazione, della Redenzione.

Nell’art. 1 san Tommaso elenca alcune di queste ragioni di convenienza. La più strutturale, potremmo dire, sta nella soddisfazione. «Era conveniente che Cristo subisse la morte. Primo, per soddisfare per il genere umano, che era stato condannato alla morte a motivo del peccato (…). Ora, il modo conveniente per soddisfare per una persona è quello di sottoporsi alla pena che essa ha meritato. E così Cristo volle morire per poter soddisfare per noi con la sua morte» (III, q. 50, a. 1). Ritorna qui questa grande idea della soddisfazione, cioè della riparazione di una giustizia lesa. San Tommaso ci dice che il modo più conveniente per soddisfare per un altro è quello di sottoporsi alla pena a cui lui era tenuto per quello che aveva fatto. E Cristo ha fatto esattamente questo.

Noi sappiamo che il peccato originale, tra le sue diverse conseguenze, ha avuto per pena la morte. Nel progetto di Dio, l’uomo non doveva morire; quindi non doveva esserci la separazione violenta dell’anima dal corpo, ma questa unità profonda che siamo noi – unità di anima e corpo – dopo aver trascorso un tempo di prova in questa vita sarebbe stata elevata in cielo, assunta in cielo, potremmo dire, senza passare per la morte. La morte invece entra nel mondo a causa del peccato. Dunque, la soddisfazione di Cristo, questa riparazione dell’ordine che è stato violato con il peccato – e dunque di quelle conseguenze, di quelle penalità che sono derivate – è stata proprio quella di assoggettare Sé stesso a quelle pene che sono ricadute su di noi: Egli, che non aveva peccato, si è assoggettato a una delle più grandi pene del peccato che è la morte. Dunque, vedete questo motivo profondo della soddisfazione.

Un’altra ragione di convenienza esposta da san Tommaso è questa: «Per liberare noi, morendo, dalla paura della morte» (ibidem). Non dobbiamo pensarlo come un motivo di consolazione esemplare, del tipo: ci è passato Lui, ci dobbiamo passare tutti. Ricordiamo il concetto fondamentale dell’unione del capo con le membra: il nostro capo è passato dalla morte, ma non è stato vinto dalla morte, bensì ha vinto la morte. Questa è la prova che tutti quelli che muoiono in Cristo, cioè quelli che con Cristo, uniti a Cristo, passano attraverso la porta della morte, hanno la stessa sorte di Cristo: non sono vinti dalla morte, ma vinceranno la morte, dapprima con la salvezza delle loro anime, e poi con la vittoria definitiva sulla morte quando avverrà la risurrezione della carne, quando cioè i nostri corpi si riuniranno alle nostre anime per godere di quella beatitudine di cui le anime già godono. Ovviamente parlo delle anime passate per la purificazione del Purgatorio e già quindi entrate pienamente nella visione beatifica.

Ancora, «per esserci di esempio a morire spiritualmente al peccato, morendo corporalmente alla somiglianza del peccato» (ibidem). Faccio un passo indietro. Esistono due morti: quella che chiamiamo comunemente morte, cioè la separazione dell’anima dal corpo; e la morte spirituale, che è il peccato, dove abbiamo un’altra separazione ben più grave, ossia la separazione da Dio, dalla fonte della vita, dell’essere, della verità, della bontà. La morte corporale, nei confronti della morte spirituale, è similitudine, è immagine. Una è quella che potremmo chiamare “la vera morte”; l’altra è la conseguenza materiale della morte spirituale, la “reificazione” della morte spirituale. La morte corporale sta alla morte spirituale in un rapporto di somiglianza. San Tommaso ci dice che il Signore, prendendo su di Sé la morte corporale, ci ha voluto insegnare a evitare la morte spirituale, a preferire di morire spiritualmente al peccato, quindi la morte della morte: la morte al peccato è la sconfitta della prima morte. E Gesù, non avendo mai sperimentato la morte spirituale perché mai il Signore ebbe minimamente un rapporto con il peccato personale («non commise peccato», come dicono le Scritture; 1 Pt 2, 22), ha comunque voluto prendere su di Sé la morte corporale per insegnarci in qualche modo a tenere lontana la morte spirituale.

«Quinto, per manifestare, risorgendo dai morti, la propria virtù capace di vincere la morte e dare così a noi la speranza di risorgere dai morti» (ibidem). Se Cristo non fosse morto, se avesse manifestato la sua onnipotenza, il suo essere la vita, evitando la morte, quindi impedendo che la morte esercitasse momentaneamente il suo potere su di Lui, noi non avremmo avuto un vantaggio enorme, che è quello che san Tommaso ci dice qui, cioè la manifestazione che Egli ha vinto la morte tramite la sua risurrezione. Detto in termini più elementari: se non fosse morto, non sarebbe risorto. Se non fosse risorto, non avremmo avuto la manifestazione di quella sua virtù, di quella sua forza di vincere la morte, cioè di passare per la morte senza rimanerne inghiottito; nella risurrezione ha manifestato la sua onnipotenza anche sulla morte stessa che è l’ultimo grande nemico che l’uomo prima o poi nella vita deve affrontare. Non c’è alcuna possibilità che scampiamo dal momento della morte; per cui la risurrezione di Cristo, del nostro capo, a cui siamo uniti come membra, è il fondamento della nostra speranza.

Tante volte si dice oggi che “di là non c’è nulla”, noi sappiamo che non è così e, con Cristo, c’è qualcosa di più: c’è la certezza della risurrezione dai morti, anche con il nostro corpo. Dunque, questo è un punto importante perché, molto spesso anche tra noi cristiani, quando ci troviamo di fronte alla morte, altrui o nostra, c’è un rischio enorme, che si sente molto in certe frasi, tipo: “ma chissà poi se è vero che di là c’è qualcosa, chissà poi che cosa succederà”. Queste sono espressioni – sebbene comprensibili per il dolore che si ha – che nascono dal cedimento a una tentazione, da una fede debole, da una fede non rinvigorita. Perciò, se ci passano per la testa questi pensieri, com’è molto probabile perché siamo fragili, dobbiamo subito ricorrere ai pari, cioè confermarci nella fede, comprendere cosa Dio ci ha rivelato, pregare perché Dio ci dia la forza e la luce e mandar via questi dubbi, che sono inconsistenti. Perché sono inconsistenti? Perché Cristo è risorto dai morti. Questa è la grande certezza della fede cristiana. Non è un’idea più affascinante rispetto ad altre, è un fatto: Cristo è passato dalla morte e l’ha vinta; e tutti coloro che sono in Cristo, tutti coloro che muoiono in Cristo non sono fagocitati dalla morte. La morte per loro è un passaggio. Un passaggio per l’anima. Anche passando dalla purificazione intermedia che è quella del Purgatorio, le anime unite a Cristo passano alla visione beatifica, con la certezza che i loro corpi risorgeranno. La fede è certezza, non è un “chissà se...”. La speranza cristiana non è “io speriamo che me la cavo”, ma è il fondamento reale. Un fondamento che è nella speranza perché ancora non lo possediamo, non perché non sappiamo se è così: quest’ultima non è la virtù teologale della speranza, è la “speranza umana”. “Speriamo che vada bene, speriamo che domani non piova”: non è questa la speranza cristiana. La speranza cristiana è avere per certo ciò che la fede ci comunica, ma che ancora non abbiamo pienamente nella realtà.

Una delle obiezioni che san Tommaso pone è quella di comprendere in qualche modo come sia possibile la compatibilità tra la morte e la vita: Dio, che è la vita ed è il principio di ogni vita, come può passare per la morte? Come può, il principio della vita, morire? Seconda obiezione connessa: non era meglio una dimostrazione della forza, dell’onnipotenza di Dio evitando la morte piuttosto che passando dalla morte? Obiezione a cui in parte abbiamo già risposto, ma che adesso riprendiamo.

Partiamo dalla risposta alla prima obiezione. San Tommaso ci dice: se fosse Dio a essere morto, cioè se ci fosse stato un momento in cui la sua divinità fosse venuta meno, è chiaro che sarebbe stata la sconfitta della vita, la morte avrebbe fagocitato il principio della vita, che è la divinità; ma non è stato così. Spiega Tommaso: «Egli [Cristo] subì la morte nella natura umana spontaneamente assunta, ma non perdé la potenza di quella sua natura con la quale dà la vita a tutte le cose» (III, q. 50, a. 1, ad 1). Cioè, non è morta la divinità: la divinità non è mai venuta meno e quindi non è mai venuto meno il principio della vita. Dunque, la morte è intervenuta sull’umanità di Cristo separandone l’anima dal corpo, ma non ha fagocitato la divinità.

Quanto alla seconda obiezione che abbiamo riferito, san Tommaso risponde: «Cristo con la sua morte ci riportò alla vita in questo modo, poiché con la sua morte distrusse la nostra morte, come chi accetta il castigo per un altro lo elimina in colui che doveva subirlo» (III, q. 50, a. 1, ad 3). Se non fosse morto, non avrebbe distrutto la nostra morte. Perché, come abbiamo detto quando abbiamo parlato della soddisfazione, la morte era la penalità del peccato originale. Se non avesse assunto la morte, non avrebbe distrutto la nostra morte distruggendo la sua, perché non poteva distruggere la morte se non l’avesse assunta. Dunque, questi sono i grandi principi di convenienza della morte di Cristo. La sua potenza si è manifestata più pienamente e più salutarmente per noi assumendo la morte, piuttosto che evitandola.

C’è poi un gruppo di articoli, dall’art. 2 all’art. 4, che ci fanno entrare in modo più analitico nel che cosa sia stata la morte di Cristo. Ora, noi sappiamo che la morte, per essere reale, che cos’è? È la separazione dell’anima dal corpo. Non ci sarebbe stata morte in Cristo se l’anima non si fosse separata dal corpo. Però noi sappiamo che l’umanità di Cristo è unita ipostaticamente alla divinità: l’anima e il corpo del Signore sono uniti ipostaticamente alla sua divinità. Nel momento della morte, quindi nel momento della separazione dell’anima dal corpo, ciascuna di queste componenti essenziali della nostra umanità – separate tra loro – rimase unita ipostaticamente alla divinità. La morte di Cristo è singolare, rispetto alla morte di qualsiasi essere umano sulla terra passato o futuro, per questo motivo: per noi la morte è la separazione dell’anima dal corpo, punto; in Cristo, invece, la separazione dell’anima dal corpo – quindi la vera morte – non comportò la separazione e dell’anima e del corpo dalla divinità: anima e corpo restavano ipostaticamente uniti a Lui pur rimanendo separati tra di loro. Ed è questa la spiegazione di quello che dicevo prima, cioè del fatto che la morte non ha fagocitato il principio della vita, non ha toccato la divinità.

San Tommaso, nella Summa, ha alcune formulazioni molto felici che ora leggiamo. La prima è il sed contra dell’art. 3, dove cita il grande scritto di san Giovanni Damasceno, La fede ortodossa: «Benché Cristo sia morto come uomo e la sua santa anima sia rimasta divisa dal suo corpo incorrotto, tuttavia la divinità rimase inseparabilmente nelle due parti, cioè nell’anima e nel corpo». Testo chiaro, limpido, cristallino, di questa altra grande summa della fede che è appunto De fide orthodoxa di san Giovanni Damasceno.

Altra formulazione particolarmente felice la troviamo nella risposta alla quarta obiezione di questo art. 3. San Tommaso cita di nuovo il Damasceno dicendo: «Rimase unica l’ipostasi del Verbo, dell’anima e del corpo. Infatti il corpo e l’anima non ebbero mai una propria ipostasi distinta da quella del Verbo. Poiché il Verbo ebbe sempre una sola ipostasi e mai due». Cosa sta dicendo? Ricordate il concetto di ipostasi, che abbiamo visto quando abbiamo trattato del mistero della persona di Cristo, dell’unione delle due nature. C’è un’unica ipostasi, un’unica persona, che è la persona del Verbo. Il mistero della divino-umanità di Cristo non è il mistero di due persone, una umana e una divina, bensì il mistero di un’unica persona in due nature distinte – umana e divina – ma unite nell’unica persona. San Tommaso ci ricorda che l’ipostasi del Verbo resta sempre una. E dunque l’ipostasi a cui sono unite l’anima e il corpo rimane sempre il Verbo. Nella morte di Cristo, il corpo sepolto era il corpo del Verbo; l’anima che discende agli inferi per liberare i giusti è l’anima del Verbo. Dunque, il corpo e l’anima rimangono il corpo e l’anima del Verbo.

Infatti, nell’art. 2 san Tommaso ci dice proprio questo. Quando noi professiamo il Credo e diciamo «[credo] in un solo Signore, Gesù Cristo», noi diciamo tutta una serie di cose, come «morì e fu sepolto». Dicendo che il Verbo fu sepolto, cioè Cristo, il Figlio di Dio, fu sepolto, stiamo dicendo che il suo corpo continuava a essere il corpo del Verbo. A essere sepolta non è l’anima. La morte indica la separazione dell’anima dal corpo. Dicendo che Cristo, il Figlio di Dio, fu sepolto, vuol dire che il suo corpo permaneva unito alla persona del Verbo e dunque alla divinità. Questo è un po’ il cuore di questo gruppo di articoli.

Val la pena soffermarsi sulla risposta alla terza obiezione dell’art. 2. L’obiezione è questa: com’è possibile che un corpo sia realmente morto se è unito alla divinità, al principio della vita? Dunque, fu una morte fittizia, una sepoltura fittizia? No. E san Tommaso spiega perché. «L’anima vivifica il corpo formalmente» (III, q. 50, a. 2, ad 3). Cosa vuol dire? Vuol dire che è la forma del corpo. Forma non sta qui per “forma geometrica”; forma in filosofia è la «forma dat esse rei», cioè la forma che comunica l’essere, in questo caso comunica la vita al corpo. Per cui, quando è presente e unita come forma, il corpo è necessariamente vivo. Cioè, se l’anima dà forma al corpo, informa il corpo, vuol dire che il corpo è vivente perché l’anima è il principio della vita del corpo: non è possibile che l’anima informi il corpo e che quest’ultimo sia morto. Dunque, nella morte, l’anima non informa più il corpo. Vita e morte si escludono, questo vuol dire. Se l’anima informa il corpo, c’è vita; se l’anima non informa più il corpo, c’è la morte.

Andiamo avanti. «La divinità ha invece la virtù di vivificare non già come causa formale, ma come causa efficiente: essa infatti non può essere la forma del corpo» (ibidem). Che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Ci sta dicendo che mentre è impossibile che l’anima non vivifichi il corpo quando lo informa, per cui la morte è necessariamente la separazione (se non ci fosse la separazione, l’anima continuerebbe a informare il corpo, e il corpo sarebbe vivo), la divinità non è la causa formale del corpo, non informa il corpo, non è il principio di vita del corpo: il principio di vita del corpo è l’anima. La divinità invece non è questa causa formale, ma è una causa efficiente. «Non è quindi necessario che il corpo sia vivo, mentre perdura la sua unione con la divinità, poiché Dio non agisce per necessità ma per libera volontà» (ibidem). Testo densissimo. L’anima non è “libera”, diciamo così, di dare o non dare la vita al corpo: se l’anima informa il corpo, gli dà la vita, punto. Nessuno di noi ha un pulsante per disattivare la funzione dell’anima di essere causa formale e quindi di dare vita, non è possibile che ci sia l’anima a informare il corpo e che il corpo non sia vivo; non c’è un interruttore che mi dice: “tengo l’anima, ma non la sua funzione vivificante”. Non così per la divinità: la divinità è causa efficiente e dunque Dio può disporre che la divinità non vivifichi il corpo, perché non è una necessità che la divinità dia vita al corpo, perché non ne è la forma, non è la sua causa formale. E questo spiega come sia possibile che il corpo, realmente morto, continui a essere unito alla divinità.

Passiamo all’ultimo articolo, il n. 6, in cui san Tommaso si chiede se la morte di Cristo ha avuto influsso sulla nostra salvezza. La domanda non è oziosa. Perché? Che cosa cessa con la morte in sé stessa? Con la morte cessa l’atto meritorio, con la morte finisce la possibilità di meritare. Allora san Tommaso fa una bella distinzione, dicendo: se noi parliamo di morte in fieri, cioè in divenire, ossia se parliamo di passione, di tutto quello che ha portato alla morte di Cristo, allora questa morte è causa della salvezza anche in modo meritorio (ne abbiamo parlato quando abbiamo trattato la quæstio 48). Abbiamo dedicato tutta una serie di catechesi su come la passione di Cristo produca i suoi effetti e abbiamo visto anche il modo meritorio, perciò vi rimando a quella catechesi.

Se però noi per morte intendiamo qualcosa che è già avvenuto – la morte avvenuta, la separazione dell’anima dal corpo, non il processo che ha portato alla morte –, allora «così considerata la morte di Cristo non può causare la nostra salvezza sotto forma di merito, ma solo a modo di causa efficiente poiché neppure dopo la morte la divinità si separò dal corpo di Cristo, per cui tutto quanto accadde a tale corpo, anche separato dall’anima, fu per noi causa di salvezza in virtù della divinità ad esso unita» (III, q. 50, a. 6). Sopraggiunta la morte, cessa la causa meritoria perché cessa la possibilità di meritare. E tuttavia, attenzione, san Tommaso ci dice che permane un’altra causa della nostra salvezza: la causa efficiente. Perché? Perché il corpo e l’anima del Signore, pur separati tra loro, rimangono uniti alla divinità.

Dunque, attenzione a questo testo, che è la risposta alla prima obiezione: «La morte di Cristo ha causato la nostra salvezza in virtù della divinità unita, non semplicemente in quanto morte» (III, q. 50, a. 6, ad 1). La morte in quanto morte non causa nulla, ma poiché il corpo e l’anima del Signore permangono uniti alla divinità ecco che essi continuano ad essere causa della nostra salvezza, «in virtù della divinità unita». Detto in altro modo, come san Tommaso spiega nella risposta alla terza obiezione, «la morte di Cristo era certamente corporale, però quel corpo era strumento della divinità a cui era unito, per cui poteva agire come strumento di essa anche da morto» (III, q. 50, a. 6, ad 3). Questa è la particolarità della morte di Cristo rispetto a noi: permanendo l’unione con la divinità e dell’anima e del corpo tra loro separati, permanendo dunque l’unione ipostatica, ecco che anche la morte stessa di Cristo, anche il suo cadavere posto nel sepolcro continua ad essere causa di salvezza perché agiscono come strumenti uniti alla divinità. Testo particolarmente denso e pregnante.

Dunque, questo è un po’ il riassunto di questa quæstio 50 che ci ha permesso di penetrare un po’ di più il mistero della morte del Signore. E san Tommaso conclude: «Per questo si dice che la morte di Cristo ha distrutto in noi sia la morte dell’anima, che è dovuta al peccato, (…) sia la morte del corpo, che consiste nella sua separazione dall’anima» (III, q. 50, a. 6). Questo fatto unico nella storia – una morte reale, nella quale però l’anima e il corpo tra loro separati continuano a permanere uniti ipostaticamente alla persona del Verbo e dunque alla sua divinità – fa sì che vengano vinte sia la morte dell’anima, cioè il peccato, che la morte del corpo. Cristo con la sua morte ci ha liberati e dalla morte dell’anima e dalla morte del corpo, distruggendo, ingoiando la morte, come dice san Paolo: «La morte è stata ingoiata per la vittoria» (1 Cor 15, 54).

La prossima volta affronteremo alcune questioni forse ancora più dense, con alcuni addentellati molto dibattuti, ossia la sepoltura di Cristo e successivamente la discesa di Cristo agli inferi. Due questioni che contengono risvolti molto interessanti.



Ora di dottrina / 166 – Il video

La morte di Cristo

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Ora di dottrina / 166 – Il supplemento

La Comunione sulla lingua e il legame con il mistero eucaristico

08_06_2025 Luisella Scrosati

La Chiesa ha nel tempo riconosciuto e “selezionato” la Comunione sulla lingua come la modalità più adeguata per esprimere la sua cura verso questo mirabile sacramento, tutto il suo amore e la sua riverenza per Gesù nell’Eucaristia.