Denatalità, non si risolve con gli immigrati
Che la denatalità sia una emergenza ormai è assodato. Ma può essere l'accesso di immigrati la soluzione, come tanti politici e anche molti ecclesiastici sostengono? No. Al contrario: la denatalità provoca il crollo dell'offerta di lavoro e rende più difficoltosa l'integrazione. L'unica cura alla denatalità è la natalità. Non bastano gli assegni familiari, ci vuole una cultura della vita.
Pubblichiamo il testo dell'intervento svolto dal direttore de La Nuova BQ al workshop su "Crescita e crisi demografica" ,all'interno del Congresso mondiale delle Famiglie, in svolgimento a Verona.
Che in Europa, nei Paesi industrializzati in generale e in Italia in particolare ci sia un problema denatalità è cosa evidente, da tanti ormai ripetuta. Ma se oggi è evidente è perché per decenni, politici e opinion makers hanno fatto finta di non vedere il problema e anzi hanno volentieri sostenuto quelle lobby che hanno diffuso a piene mani la paura per la sovrappopolazione.
Che l’Europa fosse già in grave crisi per quanto riguarda la natalità era già ovvio nella seconda metà degli anni ’80. Ricordo che l’allora Pontificio Consiglio per la Famiglia nel 1994 pubblicava un corposo e analitico documento intitolato “Evoluzioni demografiche. Dimensione etica e pastorale”, in cui si parla chiaramente di una «Seconda rivoluzione demografica» in atto causata dal calo della fertilità.
È chiaro che i movimenti demografici si apprezzano nel lungo periodo, per vedere gli effetti di una tendenza bisogna che passino decenni. Oggi in Italia si batte ogni anno il record negativo di nascite, ma è il frutto maturo di una tendenza cominciata già all’inizio degli anni ’70.
Davanti a questa situazione, ora che finalmente i politici se ne sono accorti, ci si chiede cosa fare. Ed ecco che qui gli stessi politici e opinion makers che non si sono accorti di nulla per oltre 40 anni, arrivano con la soluzione che sembra ovvia e semplice: gli immigrati. Ovvero una sostituzione.
Non parliamo qui del problema migrazione in generale, cerchiamo soltanto di considerare alcuni punti che riguardano l’aspetto oggi tanto sottolineato, ovvero l'ipotesi che l'immigrazione sarebbe la soluzione alla denatalità.
Ammesso e non concesso che si facciano certe affermazioni in buona fede, dico subito che si tratta di una scorciatoia affascinante, ma che in realtà non solo non risolve il problema ma lo peggiora enormemente.
Intanto alla base di questa convinzione c’è una concezione di persona che è ridotta, come fosse una pura questione aritmetica: mi mancano mille bambini, prendiamo mille migranti. Ma la persona è molto più che due braccia che lavorano per pagare i contributi a quanti sono in pensione. Una persona che immigra in un paese ha bisogno di molte cose già prima di potersi inserire nel mondo del lavoro: imparare la lingua, trovare un alloggio, inculturarsi, deve sistemare la famiglia. Tutte cose che evidentemente hanno un costo sociale elevato e dall'esito non scontato.
Inoltre: quali sarebbero i buchi occupazionali che andrebbero a coprire? In Italia il tasso di disoccupazione è al 10,5%, quello giovanile è al 33%, e negli ultimi 5 anni ben 244mila giovani hanno lasciato il paese per cercare lavoro altrove.
La realtà è che siamo una economia in fase di stagnazione, recessione. E questo soprattutto a causa della denatalità. Avessero avuto ragione quelli che ci hanno terrorizzato con la paura della bomba demografica, essendo in meno dovremmo avere più risorse disponibili, più posti di lavoro. Ma non è così, è l’esatto opposto.
Anche qui: c'è una idea sbagliata di come funziona l'economia. I posti di lavoro non sono né fissi, né immutabili, per cui non vale il discorso: ho mille posti di lavoro disponibili, non ci sono italiani, chiamo gli stranieri. I posti di lavoro invece variano a seconda di diversi fattori.
Faccio solo un esempio: la forza dell’economia italiana è la piccola e media industria, in gran parte è quella che si definisce l’impresa familiare. Come funziona un’impresa familiare? Il capostipite inizia un’impresa, piccola, pochi dipendenti; ma poi arrivano i figli, quindi il padre investe per lasciare la fabbrica ai figli che a loro volta innoveranno, svilupperanno, creando nuovi posti di lavoro, e lasceranno ai loro figli e via di questo passo. È così che si crea lavoro: investendo di generazione in generazione.
Ma se a un certo punto la catena si interrompe perché non ci sono più eredi, cosa succederà? Il profitto di quella azienda non viene più investito, viene consumato. Questo nel breve termine porta un vantaggio all’economia, perché si consuma di più, ma nel breve e lungo periodo è il disastro: non investendo, l’azienda perde anche di competitività; alla fine o viene venduta, magari a stranieri che poi non hanno alcun interesse a investire in un paese dove tasse e burocrazia ti uccidono, oppure semplicemente si chiude.
È soltanto un esempio, ma fa capire come ci sia un nesso diretto tra denatalità e crisi economica, e come si spiega che calando la popolazione, calano - addirittura in misura maggiore - i posti di lavoro.
Può essere l’immigrazione una soluzione a questo problema? Credo che tutti intuiscano che no, non è una soluzione. In questa sede sarebbe troppo lungo spiegare i diversi fattori, ma con tutta evidenza è chiaro che l’eventuale ingresso di manodopera straniera va in settori che non sono quelli lasciati scoperti dalla mancanza delle nuove generazioni italiane.
Ma c’è un altro aspetto importante, la parolina magica che tutti ripetono, in genere senza neanche avere l’idea di cosa stiano parlando: integrazione.
Integrazione non è uguale a omologazione. Integrazione è un percorso molto complicato e niente affatto scontato. E necessita di una apertura, di una disponibilità a incontrarsi. Per un immigrato integrarsi vuol dire capire in che paese è, impararne la lingua, i suoi fondamenti culturali, religiosi, i suoi costumi, le sue leggi. E adeguarsi.
Per un adulto non è semplice, molto importante invece la scuola: per i figli e i genitori. Ma perché un processo di integrazione e di inculturazione sia possibile c’è bisogno di una forte comunità nazionale, italiana, con cui i nuovi arrivati possano avere un incontro, possano capire attraverso la compagnia, la frequentazione, il loro sistema di valori. Ma la forte denatalità fa sì che oggi in molte scuole la percentuale di stranieri in una classe sia preponderante rispetto alla presenza di italiani.
Che integrazione ci può essere se in una classe elementare ci sono 7 italiani, 4 cinesi, 3 marocchini, 3 egiziani, un giapponese, 5 rumeni, 2 eritrei? Questa è la situazione in tante scuole italiane. Non ci può essere integrazione, al massimo ci può essere una convivenza, un modo di stare insieme senza farsi del male, ma sicuramente non l’integrazione.
Dunque la denatalità impedisce l’integrazione.
Eccoci dunque all’ultimo passaggio: l’immigrazione non può essere la cura della denatalità, anzi accelera il processo di disgregazione e disintegrazione di una società che già vive la crisi demografica.
L’unica cura della denatalità è la natalità. Quello di cui c’è bisogno è una inversione drastica dei tassi di fecondità, cosa che soprattutto in Italia non si vede all’orizzonte. E invertire la tendenza non è cosa da poco. Certamente c’è bisogno di segnali chiari dalla politica in questo senso, ma non basta. Perché, seppure giusti e doverosi, tanto per fare un esempio, non sono gli assegni familiari che convincono ad avere figli coloro che scelgono di non averli.
Soltanto una cultura aperta alla vita può invertire la tendenza, ed è qui che sarebbe importante il contributo della Chiesa cattolica. Purtroppo, così come per i politici, anche molti ecclesiastici preferiscono le scorciatoie, in pratica sempre la stessa: l’immigrazione. Che abbiamo visto essere una strada fallimentare.
Alla vita ci si apre soltanto se si ha una speranza, se si sperimentano ragioni per vivere e costruire che vanno al di là delle contingenze politiche, economiche e sociali. La fede in Cristo dà tutto questo, gli assegni familiari e gli sgravi fiscali no.