Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
"bestiario" cristiano

Cristo-Pellicano: le verità eterne riflesse nel regno animale

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Battuta all'asta per 5 milioni di sterline la Crocifissione del Beato Angelico che illustra il significato della scena servendosi di un simbolo molto particolare, attingendo a fonti bibliche e a una lunga tradizione.

Cultura 17_07_2023

Per una singolare coincidenza la celebre casa d’aste Christie’s ha recentemente proposto all’attenzione di cultori e acquirenti un dipinto del Beato Angelico dalla simbologia strettamente legata al Preziosissimo Sangue, cui tradizionalmente è dedicato il mese di luglio, e non solo per il tema in sé (trattandosi di una crocifissione).

Il domenicano fra’ Giovanni da Fiesole (1395-1455) è noto alla storia dell’arte come il “Beato Angelico”, titolo che attesta una fama di santità poi riconosciuta ufficialmente nel 1982 da san Giovanni Paolo II, che lo proclamò patrono degli artisti. E malgrado i prestigiosi incarichi che ricevette in vita, forse l’Angelico non si aspettava il record di quel dipinto a tempera relativamente piccolo (cm 59,7 x 34,3) raffigurante la Crocifissione con Maria, san Giovanni e la Maddalena, originariamente parte di un trittico realizzato tra il 1419 e il 1426, che il 6 luglio scorso ha battuto il record di quotazioni di 5 milioni di sterline (le stime di partenza oscillavano tra i 4 e i 6 milioni).

Per inciso: nel sito della Christie’s il «Giovanni» è indicato come Battista (The Crucifixion with the Virgin, Saint John the Baptist and the Magdalen), il che pare alquanto strano, sia per le fattezze giovanili del personaggio, sia per il dato evangelico (il Battista era già morto, mentre sotto la croce c’era l’evangelista) sia per l’iconografia che su di esso è basata, raffigurando sul Calvario l’apostolo “imberbe”, non il cugino del Signore. Peraltro quando l'Angelico o altri presentano un anacronismo (come nella Crocifissione con san Domenico) questo è esplicito, mentre qui non è presente alcuno dei tipici attributi iconografici del Battista.

Un’opera rara ed emozionante che «esemplifica la profonda fede di Beato Angelico»: così la definisce Francis Russell, Deputy Chairman di Christie’s UK, che la scoprì nel 1996. «La tenerezza con cui è raffigurato Cristo – continua Russel – è pari al doloroso pianto della Vergine. Ogni gesto è perfettamente misurato. Con fra’ Angelico nulla era lasciato al caso» (Art Tribune). Nulla è lasciato al caso, neanche un dettaglio apparentemente piccolo che sembra sfuggire nel mare di commenti giustamente entusiasti sull’uso della prospettiva, sul colore, sui gesti e sull’espressività dei sacri personaggi. Si dice che il diavolo si nasconda tra i dettagli, ma a volte anche Dio: in cima alla croce scorgiamo un pellicano che nutre i suoi figli. Uno dei tanti simboli che tuttora vediamo in chiese e tabernacoli ma che scambiamo per mero ornamento poiché ne abbiamo perduto la chiave di lettura.

«Pie pellicane, Jesu Domine: me immundum munda tuo sanguine» («Pio pellicano, Signore Gesù, me immondo, monda con il tuo sangue»): è un versetto dell’Adoro te devote di san Tommaso d’Aquino. Anche Dante Alighieri definisce Cristo «il nostro pellicano». Presentando san Giovanni Evangelista nel XXV canto del Paradiso dice: «Questi è colui che giacque sopra ’l petto / del nostro pellicano, e questi fue / di su la croce al grande officio eletto» (vv. 112-114). Dopo aver letto questi versi è impossibile non guardare l’opera dell’Angelico levando lo sguardo dall’evangelista «al grande officio eletto» fin su al «pellicano» immolato sulla croce e raffigurato poi in forma simbolica poco più in alto. Ma se è più facile associare Cristo ad altri animali (per esempio l’agnello o il leone di Giuda), la simbologia del pellicano risulta meno immediata, per quanto fosse diffusa in epoca medievale.

Come per altri simboli del “bestiario cristiano”, la fonte originaria è il Fisiologo, un trattato sul regno animale, vegetale e minerale, scritto ad Alessandria d’Egitto tra il II e il III secolo e di cui si diffusero nei secoli a venire varie versioni. Per un’esposizione più completa anche sulle fonti successive rinviamo il lettore a un saggio del domenicano fra’ Maxim D’Sylva (Il pellicano simbolo dell’eucaristia), accontentandoci qui di un cenno tratto dal Fisiologo, che inizia a parlare dell’uccello dal caratteristico becco citando il salmo 102 (101), 7: «Sono simile al pellicano del deserto» (alcune versioni in lingua corrente traducono con «civetta», mentre il testo latino dice: «Similis factus sum pellicano solitudinis»). E cosa fa il pellicano nel deserto? Qui l’autore riporta una leggenda che parla di morte e di risurrezione attraverso il sangue.

«Quando infatti i piccoli sono nati e cominciano a crescere», leggiamo ancora nel Fisiologo, «colpiscono i loro genitori al volto: allora i genitori, irati, li colpiscono di rimando e li uccidono. Il terzo giorno la madre, percuotendosi il costato, si apre il fianco e si china sopra i piccoli ed effonde il suo sangue sopra i corpi dei figli morti, e così col suo sangue li risuscita». Una leggenda piuttosto “truce”, ma certamente a lieto fine. A questo punto il simbolismo è divenuto evidente: sotto le sembianze del pellicano si vela e si svela il sacrificio di Cristo e la potenza infinita – vitale! – del sangue versato sulla croce. Proprio come i piccoli del pellicano, osserva il Fisiologo, noi «lo abbiamo colpito al volto servendo al suo cospetto la creatura, non il creatore. Per questo dunque nostro Signore Gesù Cristo salì sulla croce e dal suo fianco ferito uscì sangue con acqua per la nostra salvezza e la vita eterna». Ed ecco il pellicano che si squarcia il petto per risuscitare e nutrire i suoi figli, così come lo vediamo nel dipinto dell’Angelico e – non a caso – su altari e tabernacoli.

Il secondo insegnamento viene dal Fisiologo stesso (e dai suoi epigoni), che – è evidente – non aveva finalità scientifiche ma era caratterizzato da quello sguardo tipico del mondo “pre-moderno” che sapeva leggeva oltre la mera materialità della creazione, cogliendone esortazioni e riflessi delle realtà eterne. Un’ottica non naturalistica nel senso che siamo soliti intendere, ma certamente sapienziale. Un’ottica senza la quale non sarebbero sorti capolavori come quelli del Beato Angelico né tutta l’arte sacra che di questi simboli è intrisa, offrendoci anche nella gioia della contemplazione artistica mille rivoli di quella redenzione che il «nostro pellicano» ha ottenuto a prezzo del suo stesso sangue.
 



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