Crisi dell'auto. Pretendere la rivoluzione dell'elettrico distrugge un'eccellenza
Come si spiega una crisi grave in così tanti grandi gruppi industriali automobilistici, non solo in Europa, ma anche negli Usa e in Giappone? La crisi è strutturale, dovuta a un rallentamento di crescita e consumi e un'alta inflazione. Ma anche il dirigismo europeo ci mette del suo, obbligando tutti a puntare sull'elettrico, per cui pochi sono pronti. La parola all'ingegner Mario Verna, già dirigente di FCA e direttore generale di Queen Car a Torino.
Le notizie che giungono dal mondo dell’industria automobilistica sono sempre peggiori. L’Italia è alle prese con la crisi di Stellantis, la grande casa dell’automotive in cui si è fusa anche la Fiat. Nel terzo trimestre del 2024, le consegne erano calate del 17% in Europa e del 36% in Nord America. In Italia si aggira lo spettro della chiusura di stabilimenti e di nuove raffiche di licenziamenti. In Germania stanno ancora peggio: è entrata in crisi la Volkswagen e per la prima volta nella sua storia ha annunciato la chiusura di almeno tre fabbriche tedesche. E se l’Europa piange, neppure l’Asia ride: in Giappone è crisi per Nissan che annuncia chiusure e il licenziamento di 9mila lavoratori in tutto il mondo. Sta soffrendo, di conseguenza anche l’industria componentistica: in Francia chiudono due fabbriche delle gomme Michelin.
Si tratta dunque di una crisi di sistema, non è solo una crisi aziendale o un problema locale. Ma quali sono le cause? La Nuova Bussola Quotidiana ne parla con un esperto del settore, l’ingegner Mario Verna, ex manager di FCA e responsabile di SsangYong, dal 2020 Direttore generale di Queen Car a Torino.
«Da un lato la crisi è causata da un problema congiunturale. L’auto è sempre stata condizionata dalle condizioni macroeconomiche: Pil, inflazione, propensione d’acquisto, i cui indicatori sono ai minimi storici, soprattutto in Europa, specialmente in Germania. Ma c’è anche una concausa: la transizione energetica – ci spiega l’ingegner Verna – La scelta europea di voler imporre l’auto elettrica forza un cambiamento. Ma nessuna rivoluzione industriale precedente era stata dettata dalla politica e dai suoi tempi. Ormai siamo alla quarta rivoluzione industriale e tutte le innovazioni sono nate in un contesto di libertà, mai sotto dettatura del legislatore. Ad esempio, quando è iniziata la rivoluzione informatica, nessuno ha pensato di obbligare i cittadini a comprare solo computer o di vietare le macchine da scrivere. Quando si è diffuso il telefono cellulare, nessuno ha vietato i telefoni fissi o le cabine telefonica, è la sua utilità che ha spinto la sua diffusione e provocato anche l’estinzione graduale dei prodotti concorrenti».
L’Ue con metodi autoritari, insomma, vorrebbe imporre una rivoluzione della mobilità, con tempi strettissimi: dal 2035 stop alla vendita di veicoli a benzina e diesel. Ma è, secondo l’ingegner Verna, «un errore strategico che, nella realtà dei fatti, è certificato dai numeri del fallimento. L’Europa sta mettendo al bando il suo know how: per secoli è stata leader di questo settore e basti pensare alla storia della grande industria automobilistica, in Italia, così come in Germania. Al tempo stesso l’Europa si lancia in un settore, l’elettrico, dove manca di know how e dove non è in grado di sviluppare un sistema competitivo». Scelta nefasta sul piano della competizione, perché «Questi obiettivi valgono per la sola Europa. Per di più si punta tutto su una sola tecnologia, per cui non disponiamo neppure delle fonti necessarie delle materie prime».
Però anche la Nissan, in Giappone, sta entrando in crisi. «Per motivi simili, perché si abdica a un sistema per adottarne un altro per cui non si è pronti. Oltre al problema strutturale che riguarda soprattutto le economie occidentali post-Covid (quindi inflazione, meno propensione al consumo e minor crescita del Pil), è evidente che le aziende che si lanciano sull’elettrico rinunciano alla loro “anima”, al loro “DNA”. Noi siamo soliti associare la Tesla (di Elon Musk) all’auto elettrica per eccellenza. Ma la forza di Tesla, paradossalmente, non è l’auto elettrica: è un fenomeno di costume, è un marchio che ha deciso di giocare una partita completamente diversa (nella distribuzione, nella vendita, ecc…) nel mercato dell’automotive, con i suoi sistemi e software nativi che ne fanno un caso unico». Quindi si spiega perché i concorrenti di Tesla non funzionano? «Inseguire quel modello, ti pone in un sistema che non è il tuo. Giochi con armi che non sono le tue e non nel tuo campo di battaglia. Tesla non è solo un prodotto, è un intero “ecosistema” che non è replicabile, nasce così. Per questo qualunque esotismo, nel campo dell’automotive, diventa un rischio letale». Un problema che viene sentito soprattutto in Europa: «Perché l’Ue obbliga sistemi diversi a diventare qualcosa che non sono e che non potranno mai essere. Sono modelli che non sono in grado di stare da soli sul mercato, senza incentivi e senza costi esorbitanti per la società».
Si parla anche sempre più spesso della concorrenza delle case automobilistiche cinesi, fra le prime, assieme a Tesla, nel mercato delle auto elettriche. Ma «la concorrenza cinese conta, solo se rendiamo l’auto elettrica come l’unica opzione. Noi ci siamo convinti che l’elettrico sia il “futuro”. Ma il motore elettrico è l’unica innovazione tecnologica in cui la Cina primeggia, semplicemente perché è più facile da progettare e costruire rispetto a un motore a combustione interna, per il quale occorre un know how che la Cina non ha (e non ha neppure il tempo di acquisire). Per questo, se l’unico futuro è l’elettrico, abbiamo di fatto consegnato il settore all’auto cinese. Oppure provi a farlo tu, ma alla fine si chiudono le fabbriche: non può funzionare perché i costi in Europa non sono competitivi rispetto a quelli della concorrenza cinesi (basti pensare ai costi dell’energia)».
Insoma, il dirigismo europeo sta contribuendo a distruggere il settore. «Il compito del politico è quello di anticipare problemi e minacce, per disinnescarle. Nel caso dell’automobile, i politici europei hanno fatto il contrario: a fronte di un problema strutturale e di mercato, hanno zavorrato il settore con talmente tante regole e hanno fissato delle scadenze così ravvicinate, da farlo affondare».