DIBATTITO
Corno d'Africa, la sfida è il dopo emergenza
Superata questa fase acuta è necessario fare in modo che le calamità naturali non si trasformino
in emergenze umanitarie.
Attualità
01_09_2011
La carestia che ha colpito il Corno d’Africa piegando regioni del continente già critiche e accanendosi in prima battuta sui i bambini sotto i cinque anni di età, potrebbe ulteriormente espandersi in tutta la Somalia fino a toccare la regione di Juba nel neonato Sud Sudan. Questo è quanto ha affermato in questo fine agosto Mark Bowden, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Somalia, a cui fa eco il vice-segretario generale dell’ONU Asha-Rose Migiro affermando che “Il futuro di un’intera generazione si trova in bilico”.
L’Onu ha dichiarato che in questa carestia il 20% delle famiglie deve far fronte a una grave carenza di cibo: il tasso di malnutrizione acuta investe più del 30% delle persone, e la mortalità giornaliera è prossima a circa 2 morti ogni 10.000 individui.
Come in ogni emergenza umanitaria che ha colpito il mondo nell’era della globalizzazione, la mobilitazione dei governi, delle agenzie internazionali, delle agenzie non governative, delle imprese private e della stessa opinione pubblica, seppur su spinte motivazionali differenti, è stata pronta e attiva. Ma secondo il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, occorre ancora almeno un altro miliardo di dollari per affrontare l’emergenza umanitaria nella regione e al momento i fondi destinati alla crisi alimentare nel Corno d’Africa rappresentano solamente il 57% dei finanziamenti necessari (dati ONU al 23 agosto 2011). Così in Somalia, si registra un incremento del 15% nel numero di casi di malnutrizione infantile, da 390.000 bambini a 450.000, 190.000 dei quali soffrono di malnutrizione acuta grave. Circa 336.000 bambini, il 75% di tutti i bambini affetti da malnutrizione, si trovano nel sud del paese.
Inoltre carestia e siccità, che appartengono a quelle crisi “reali” che tolgono i beni primari alle persone, minano il futuro delle generazioni mettendo a rischio l’ida di sviluppo umano integrale si accompagnano a situazioni collaterali che certamente non aiutano.
Si parla infatti di oltre 1.5 milioni di sfollati che vengono spostati all’interno della Somalia o nei paesi limitrofi andando ad appesantire le già non facili situazioni locali come in Etiopia e in Kenya. I campi profughi (che vanno dall’ospitare 25mila persone come in Etiopia Meridionale a 440mila in Kenya con oltre 1200 arrivi giornalieri) per via delle condizioni complessive legate alla malnutrizione, all’igiene e a malattie quali il morbillo, hanno tassi di mortalità molto alti e preoccupanti.
Inoltre, per completare il quadro, in questi territori gli incidenti causati dai gruppi armati continuano a ripetersi. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), la maggior parte della Somalia meridionale resta inaccessibile a molte organizzazioni umanitarie e l’assistenza umanitaria è ostacolata.
Lo scenario non è destinato a migliorare nel prossimo futuro e le occasionali piogge torrenziali di questi giorni non fanno che peggiorare la condizione degli sfollati. Secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, le previsioni stagionali della regione indicano precipitazioni regolari nei prossimi mesi in quasi tutto il Corno ad eccezione della zona di confine del triangolo di Mandera (tra Kenia, Etiopia e Somalia) della Somalia meridionale.
E’ forse possibile, dunque, prevedere una ripresa solo a partire dalla prossima mietitura (agosto 2012). Ma affinché la ripresa, una volta rientrata l’emergenza che limita il pensiero al breve periodo, e vincola le azioni a mitigare le conseguenze, si possa declinare in sviluppo i passi da fare sono e saranno ancora molti. Numerose le iniziative italiane che operano con costanza in questa direzione tra cui AGIRE, tra le prime ad aver lanciato l’allarme, AVSI, sempre reattiva e presente in contesti dove lo sviluppo umano è messo a dura prova, Unimondo, già da tempo in Somalia, e la Caritas italiana. Quest'ultima soprattutto ha saggiamente invitato a riflettere profondamente sulle “cause strutturali” di queste cosiddette “calamità naturali”.
Queste cause che nel Sud del mondo trasformano, quasi sempre, una calamità naturale in una emergenza umanitaria altro non sono che le ragioni ontologicamente connesse con l’assetto strutturale locale e in particolare con:
- il piano politico: il tema del rischio e, in particolare, della prevenzione del rischio è stato oggetto solo di recente di attenzione sistematica e non sporadica da parte delle istituzioni governative locali e degli organismi internazionali, più concentrati nella lotta diretta contro la povertà, la fame e le malattie endemiche;
- il piano culturale: i paesi a più basso reddito non sono ancora caratterizzati da una specifica cultura scientifica e tecnologica, e devono cercare di rafforzare la propria capacità di promuovere e sostenere la ricerca e l’innovazione anche nell’ambito della prevenzione del rischio;
- il piano economico: la disponibilità finanziaria di questi paesi, sempre piuttosto critica, limita certamente le opzioni; la possibilità di investire in sistemi di controllo e monitoraggio avanzati e/o in grandi infrastrutture in grado di mitigare le conseguenze di eventuali calamità naturali sono ancora deboli e richiedono la presenza costante e durevole del supporto internazionale.
Come per altri ambiti (energia, sanità, infrastrutture, acqua, ambiente e territorio), la gestione delle risorse naturali diviene un problema prima di tutto socio-economico e nella ricerca di soluzioni diviene necessario pertanto agire in prima battuta sui tre piani dell’assetto strutturale:
- creare o rafforzare la capacità istituzionale e supportare i decisori nella definizione di strategie di lungo periodo sulla base delle numerose esperienze che il Nord del mondo può offrire come competenze acquisite e lezioni apprese (dai Paesi Bassi all’Italia, dallo Sri Lanka al Giappone…);
- puntare sulla formazione vocazionale e sullo sviluppo di curricula nel settore della prevenzione del rischio per preparare la classe dirigente e operativa futura in grado di gestire il rischio sempre più in autonomia locale;
- spingere il più possibile gli aiuti allo sviluppo legati ai finanziamenti bilaterali o multilaterali, come ribadito da Ban Ki-Moon in questi giorni verso questi temi.
Tutti interventi lunghi, a volte di effetto non immediato e dunque non sempre in grado di creare un impatto e mobilitare l’opinione pubblica. Ma tutti interventi necessari affinché, dopo l’emergenza, si possa davvero passare allo sviluppo e dare un futuro non solo di sopravvivenza alle giovani generazioni di questi territori.