MacIntyre, da Marx alla fede passando per Aristotele e Tommaso
Ascolta la versione audio dell'articolo
La morte a 96 anni di uno dei più influenti filosofi della nostra epoca spinge a riscoprire il suo pensiero, che origina dalla drammatica problematicità della vita. La valorizzazione della ricerca della verità e del bene.

Un uomo non si può dir felice prima della sua morte, dicevano gli antichi. È questo il primo pensiero che mi si è imposto alla notizia della morte di Alasdair MacIntyre – uno dei più influenti filosofi della nostra epoca – avvenuta il 22 maggio scorso all’età di novantasei anni. Non si tratta tanto della preoccupazione per la misteriosa condizione attuale della sua anima. Penso soprattutto alla sua esistenza terrena, caratterizzata da tanti conflitti e dilemmi allo stesso tempo teorici ed esistenziali. È stata una vita felice?
MacIntyre ha insegnato a pensare alla vita prendendo coscienza della sua drammatica problematicità – “Quaestio mihi factus sum” (Io stesso sono diventato domanda), diceva S. Agostino – non accontentandosi delle scappatoie offerte dalla mentalità liberale e mirando con tenacia al raggiungimento del proprio vero bene. Una vita non pensata, non interrogata e meditata, è una vita che non vale la pena di essere vissuta, e ciò vale per tutti, anche per l’uomo comune.
Tutti infatti siamo nati all’interno di comunità e prendiamo parte a pratiche sociali che sono intrise di una tradizione morale che ci permette di orientare le nostre decisioni. Ma all’interno di tali pratiche sorgono inevitabilmente dilemmi e conflitti morali che ci costringono a problematizzare il portato della tradizione di appartenenza, a renderci consapevoli di esso e a farlo nostro. È proprio attraverso tale problematizzazione che possiamo contribuire personalmente al rinnovamento della tradizione stessa, corroborando così la sua vitalità. Ogni tradizione morale è quindi anche una tradizione di ricerca in competizione con tradizioni rivali.
Ciò significa allora che tutte le tradizioni morali sono equivalenti? Detto altrimenti, MacIntyre è un relativista? È un’accusa che è stata spesso rivolta al nostro pensatore soprattutto da studiosi di cultura conservatrice. Si tratta di una questione complessa che vale tuttavia la pena affrontare per comprendere l’attualità della sua proposta.
La prima tradizione a cui MacIntyre dà la sua adesione giovanile è il marxismo. Iscritto al Partito comunista britannico, ne esce dopo le tragiche vicende ungheresi del 1956 insieme a numerosi giovani intellettuali, fondando gruppi e riviste appartenenti all’arcipelago del marxismo critico tipico della New Left inglese. A differenza di molti dei compagni di allora, la sua ricerca è spinta tuttavia da un dilemma etico: su quali basi fondare la condanna morale dello stalinismo? MacIntyre si convince gradualmente che il marxismo non può fornire gli strumenti concettuali per sostenere razionalmente una visione etica alternativa.
In fondo si tratta sempre della stessa questione: per fare la frittata (vale a dire la società socialista) occorre necessariamente rompere le uova (ricorrere alla violenza rivoluzionaria). Quindi alla fine degli anni sessanta, nel momento in cui il marxismo sembra conquistare una posizione egemonica politica e culturale anche nelle società al di qua della Cortina di ferro, MacIntyre decide di abbandonare la sua militanza ideologica e politica e si trasferisce negli Stati Uniti.
Tale emigrazione non va intesa come un’adesione alla società liberale e capitalistica che gli USA rappresentano, tutt’altro. Se c’è una costante nella vita di MacIntyre è quella della sua ostilità a tale forma di vita sociale, la quale rende sempre più ardua la conduzione di una vita autenticamente morale, cioè non schiacciata sugli imperativi sistemici dello stato e del mercato. Si tratta piuttosto di una presa di distanza rispetto a diatribe oramai insensate per sviluppare nuove linee di ricerca all’interno di istituzioni accademiche meno ideologizzate.
La società liberale moderna appare sempre più a MacIntyre come il teatro di scontri morali e politici in cui i vari punti di vista – siano essi di origine religiosa o secolare – danno vita alla ben misera rappresentazione di una conflittualità endemica mascherata da dialogo fittizio. Le argomentazioni che ognuno avanza difatti fanno riferimento a prospettive informate da tradizioni etiche incommensurabili, che cioè non condividono alcun criterio comune. Quello che avviene nelle varie piazze (sempre più virtuali) della società liberale non è quindi un confronto razionale bensì lo scontro tra voci che tendono ad assumere quel “tono petulante” di cui si riveste la volontà priva di argomentazioni. Il sospetto che si affaccia alla mente di MacIntyre è che forse aveva ragione Friedrich Nietzsche ad affermare che l’origine inconfessabile di ogni morale è la volontà di potenza e a denunciare il fallimento del progetto illuminista di costruire una morale universale.
L’unica chance che rimane di fronte al nichilismo nietzschiano sta nel recupero delle risorse offerte dal passato pre-moderno. Nella sua opera più importante (Dopo la virtù, 1981) MacIntyre stabilisce una chiara e netta alternativa: Nietzsche o Aristotele? E l’opzione a favore del filosofo greco non è ideologica, bensì è basata sul fatto che il pensiero aristotelico è in grado di dar conto della nostra esperienza umana comune, a differenza del filosofo tedesco, costretto a rifugiarsi in un “superomismo” fatto per pochi spiriti eletti e anche pericoloso moralmente e politicamente. Questa opzione aristotelica viene successivamente rinforzata dalla svolta tomista compiuta da MacIntyre alla metà degli anni ottanta, coeva alla sua conversione al cattolicesimo.
Il “neoaristotelismo tomista” teorizzato e praticato da MacIntyre da quel momento in poi mira a dimostrare che solo tale tradizione di ricerca è in grado da un lato di rendere comprensibile l’esperienza morale e politica comune – come s’è detto – ma anche di fornire al soggetto che vive e agisce dei criteri pratici oggettivi per valutare e orientare la vita individuale e collettiva. Criteri che sono oggettivi in quanto incorporati nelle pratiche sociali più tipiche della condizione umana, quali l’educazione, la vita matrimoniale, le relazioni comunitarie e associative, gli sport e le arti, i mestieri e le professioni e anche la ricerca intellettuale. Sono le virtù – la saggezza pratica, il coraggio, la moderazione, la giustizia, l’umiltà, la pazienza ecc. – a incarnare tali criteri e allo stesso tempo a realizzare in modo seppur parziale quella fioritura dell’umano che rappresenta il bene ultimo.
Torniamo alla domanda di partenza. La vita di MacIntyre è stata una vita felice? La risposta deve essere negativa per due ragioni. La prima è che quando noi usiamo il termine “felicità” in italiano o nelle altre lingue europee moderne intendiamo soprattutto una condizione emotiva che può variare da soggetto a soggetto. Qualcosa di sostanzialmente diverso da ciò che Aristotele e S. Tommaso intendevano rispettivamente per eudaimonia e beatitudo – condizioni di fioritura umana oggettivamente riconoscibili, per quanto accompagnate anch’esse da stati emozionali positivi.
La seconda ragione riguarda il taglio sempre più teologico che la ricerca macintyreana acquisisce negli ultimi scritti. La beatitudo tommasiana è infatti compatibile con l’errore conoscitivo e morale, con il fallimento e col sacrificio. L’ultima grande opera di MacIntyre (L’etica nei conflitti della modernità, 2016) si conclude con le biografie di quattro personaggi contemporanei che hanno fatto esperienza dello scacco dell’esistenza. Eppure ciò che per MacIntyre rende tali vite “beate” è l’aver ricercato con decisione la verità e il bene. Ricerca che è possibile solo alla condizione di avere il coraggio e le altre virtù necessarie per combattere la menzogna e l’ingiustizia. In tale prospettiva si può ragionevolmente sperare che l’infelice MacIntyre sia prima o poi accolto nella vera pace dei beati.