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Con Kennedy, Trump gioca nel campo avversario

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La campagna di Trump ha messo a segno due colpi: l'affiliazione dell'ex deputata Dem Tulsi Gabbard e il ritiro dalla corsa di Robert F. Kennedy jr. Due figure eterodosse che possono attirare all'ex presidente repubblicano consensi in un bacino di elettorato tradizionalmente di sinistra. 

Editoriali 26_08_2024

Dopo i colpi di scena a ripetizione di luglio, la campagna elettorale presidenziale statunitense sembra in questi giorni mostrare segni di assestamento intorno ad alcune coordinate riconoscibili, che dovrebbero rappresentarne il Leitmotiv dei prossimi due mesi. 

La competizione rimane senza dubbio impostata su una polarizzazione identitaria radicale, fondata su aspetti soprattutto simbolici, e volta essenzialmente a richiamare alle urne lo "zoccolo duro" di entrambe le parti. Ma in questo blocco granitico si stanno aprendo alcune fenditure, prodotte dall'emergere di questioni di contenuto e di programma non aggirabili, e si vanno definendo linee di frattura sociali e culturali sulle cui oscillazioni di opinione si deciderà il risultato negli Stati contesi. 

Nel campo del Partito democratico, con la Convention di Chicago è stata completata l'operazione di costruzione della candidatura/icona di Kamala Harris, cercando di occultare per quanto possibile il "peccato originale" di "parricidio" operato senza complimenti ai danni di Joe Biden, e il fatto che la Harris non avesse mai avuto alcuna legittimazione e investitura da parte degli elettori.

La costruzione della "nuova" Harris - attraverso la narrazione pervasiva a reti quasi unificate che da comprimaria imbarazzante di Biden l'ha reinventata come eroina di donne e minoranze - è avvenuta attraverso la "benedizione" a lei concessa dai clan dominanti del partito (i Clinton e gli Obama, più Nancy Pelosi) e l'imposizione da parte degli spin doctor della parola d'ordine ufficiale e unificante della campagna: "joy". Una parola concepita per indurre negli elettori la sensazione che la competizione tra la Harris e Trump sia riducibile alla contrapposizione tra l'entusiasmo e la paura, la voglia di futuro e il rimpianto del passato, la giovinezza e la vecchiaia, la fiducia e il rancore. 

Per più di un mese la Harris, incredibilmente, non ha concesso nemmeno un'intervista né tenuto una conferenza stampa, per timore di rompere l'incantesimo della sua "luna di miele". L'unica proposta propriamente politica da lei avanzata è stata quella di un controllo pubblico dei prezzi: proposta tanto rovinosa da essere subito subissata da un coro di critiche non solo da parte trumpiana e repubblicana, ma anche da media simpatizzanti come il "Washington Post". 

Ma prima o poi alle questioni di contenuto non si spuò sfuggire. Così, nel suo discorso di accettazione della candidatura, la Harris ha provato a fare qualche passo in più per avvalorare l'idea di qualcosa che assomigliasse anche vagamente a un programma di governo. Al di là della prevedibile retorica mielosa sul suo essere figlia di immigrati (ricchi, ma questo non lo dice) e sul fatto di essersi battuta da avvocato per i diritti delle donne, ha cercato di proporre di sé un'immagine non di radicale woke ma di "dura", paladina di legge e ordine.

Ha respinto le accuse di arrendevolezza verso l'immigrazione clandestina sostenendo l'efficacia degli accordi interfrontalieri intrapresi dall'amministrazione Biden (contro ogni evidenza, vista la vera e propria invasione degli ultimi anni), e incolpando del loro fallimento, un po' comicamente, il boicottaggio di Trump, che era all'opposizione. Ha cercato di rappresentare se stessa - con effetti ugualmente comici, visto che praticamente nessuno si era accorto della sua presenza in questo campo da vicepresidente - come autorevole portatrice di una linea di fermezza e difesa della libertà in politica estera. Ha cercato di dare un colpo al cerchio e uno alla botte sulla questione israelo-palestinese, sostenendo sia il diritto intangibile di Israele a difendersi sia le aspirazioni palestinesi all'autogoverno, e scontentando presumibilmente sia gli elettori filo-Gerusalemme che gli estremisti pro-Pal. Ha, infine, lanciato un ballon d'essai più "liberale" (nelle sue intenzioni) in campo economico, dopo il plagio patente della proposta trumpiana di abolire le tasse sulle mance: promettendo tagli fiscali alla classe media, contrapposti a quelli concessi da Trump ai "ricchi".

Una serie di posizioni piuttosto vaghe, ma soprattutto condizionate da una pesante ipoteca negativa che, appena si dirada la cortina fumogena sprigionata dal suo processo di "canonizzazione", si affaccia inevitabilmente, e necessariamente peserà nel giudizio degli elettori non pregiudizialmente schierati. In sintesi, Kamala non può distanziarsi troppo dalle politiche dell'amministrazione Biden, di cui ha fatto e fa ancora parte in un ruolo cruciale, ma al contempo deve in qualche misura farlo se vuole dare l'impressione di incarnare il “cambiamento” e se non vuole essere chiamata dagli avversari a rispondere di ogni insuccesso di un'amministrazione i cui livelli di popolarità sono ai minimi storici. Un complicato gioco di equilibrismo in cui basta pochissimo per precipitare. Come ha cercato, la Harris, di occultare queste smagliature? Nel modo più scontato e collaudato in casa Dem: impiegando gran parte del suo intervento a demonizzare Trump, additandolo come pericolo mortale per la democrazia statunitense contro il quale tutti i cittadini onesti e patriottici devono fare fronte comune. 

Rispetto alla "santificazione" della Harris lanciata nella Convention e alla fragile linea programmatica da lei faticosamente elaborata, Trump e il suo entourage hanno però cominciato a reagire efficacemente, uscendo dal loop delle recriminazioni per il "colpo di mano" Dem, controbattendo colpo su colpo nel merito alle argomentazioni avversarie, ed evidenziandone da un lato l'estremismo socialistoide (il controllo sui prezzi) dall'altro l'incoerenza. 

Inoltre, la campagna di Trump ha messo a segno due colpi importanti che mettono fortemente in discussione la polarizzazione simbolica su cui i Dem avevano inchiodato il dibattito: l'affiliazione dell'ex deputata Dem Tulsi Gabbard, e, ancor più clamorosamente, il ritiro dalla corsa, con relativo endorsement a Trump, da parte di Robert F. Kennedy jr. Scelta, quest'ultima, anche dal grande valore simbolico per la dinastia politica di provenienza. Queste due figure molto eterodosse possono attirare all'ex presidente repubblicano consensi non trascurabili anche in un bacino di elettorato tradizionalmente di sinistra, accentuando le divisioni già esistenti nel partito avversario. 

Si tratta di un punto cruciale, soprattutto se si considera che la vittoria o la sconfitta si decideranno probabilmente in stati della rust belt di profonde tradizioni operaie e oggi in grave crisi di deindustrializzazione. La scelta come candidato vicepresidente di J.D. Vance, proveniente proprio dalla classe operaia impoverita e frustrata della fascia centrale degli States, tradizionalmente legata ai Dem, era già un forte indizio in questa direzione, e oggi questa linea appare ulteriormente rafforzata. Infine, la solida convergenza elettorale fra Trump ed Elon Musk va anch'essa, con le sue specifiche caratteristiche, nel senso della costruzione di un fronte non scontato, e molto trasversale. 

Forse è troppo presto per parlare di qualcosa come i "Trump's democrats", parafrasando la definizione coniata a suo tempo per inquadrare i consensi che Ronald Reagan riuscì ad ottenere da elettori di sinistra moderata. Ma almeno sembrano esistere le premesse per un processo in tal senso. In ogni caso, le possibilità per Trump di sconfiggere la "gioiosa macchina da guerra" messa in piedi dai Dem attorno alla Harris sono essenzialmente affidate alla sua capacità di portare il gioco nella metà campo avversaria, e di proporre un insistente “pressing" su contenuti programmatici che evidenzino le contraddizioni della sua controparte, senza lasciarsi schiacciare in un angolo dalla retorica moralista woke che per la nuova "santa" della sinistra americana è il terreno più favorevole, forse l'unico.