Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
IL LATINO SERVE A TUTTI / LIX

Come divampò la prima guerra giudaica

Nel V libro delle Historiae, Tacito fa un excursus di carattere storico, geografico ed etnico sulla Giudea. Dopo aver ripercorso le vicende dei Romani in quella regione, descrive in sintesi la rivolta scoppiata nel 66 d.C., quando il procuratore Gessio Floro entrò nel Tempio per prelevarne parte del tesoro e fece impiccare dei Giudei.

Cultura 12_05_2019

Nel V libro delle Historiae l’archeologia giudaica occupa i primi 13 capitoli. Come Tacito ha indagato usi e costumi dei Britanni e dei Germani, così si è soffermato anche sul popolo ebraico, ma con uno scrupolo ben più ridotto rispetto a quello riservato alle altre popolazioni e soprattutto - mentre negli altri popoli lo storico ha ravvisato vizi, ma anche virtù - degli Ebrei costruisce un quadro totalmente negativo. 

Lo attesta la lettura della prosa latina, come riconoscono latinisti di alcuni decenni fa come Concetto Marchesi (1878-1957) o altri più recenti, di formazione culturale differente, che propongono tale interpretazione critica anche nei manuali di latino in uso da anni nelle scuole (solo per addurre qualche esempio Roncoroni, Gazich, Marinoni, Sada in Exempla humanitatis o Diotti, Dossi, Signoracci in Narrant).

Fino a un po’ di tempo fa era opinione diffusa che l’antisemitismo fosse nato tardi, nel IV secolo d. C. Ad esempio, scrive Eugenio Saracini in Breve storia degli Ebrei e dell’antisemitismo che gli antichi

erano tolleranti in materia religiosa, nella misura in cui le religioni altrui non minavano l’autorità dello Stato. E dove c’è tolleranza non si vede come possa esserci l’odio.

Da alcuni decenni, però, nuovi studi hanno messo in luce

una sorta di antisemitismo pagano che, oltre a manifestarsi in esplosioni di odio e massacri, trova in Tacito le sue premesse teoriche (Narrant, cit.).

Dopo aver presentato usi e costumi degli Ebrei, Tacito si sofferma sulla geografia. Descrive i confini di quella terra che «a Oriente confina con l’Arabia, a meridione con l’Egitto, a occidente con il mare e i Fenici, e, per lungo tratto, a settentrione, con la Siria». I prodotti tipici della terra sono i palmeti e l’arbusto del balsamo, dal quale si ricava un liquido lattiginoso con funzioni medicamentose o cosmetiche. Il monte più elevato è il Libano da cui nasce e «prende alimento il fiume Giordano, il quale non sfocia in mare, ma fluisce intatto attraverso un primo e un secondo lago, per essere infine trattenuto dal terzo». Il riferimento è qui probabilmente non al monte Libano, ma all’Anti-Libano, a cui appartiene il monte Hermon, da cui nasce effettivamente il fiume Giordano, mentre il primo, il secondo e il terzo lago sono rispettivamente il lago Meron, quello di Tiberiade e il Mar Morto.

La descrizione del Mar Morto, collocato nella massima depressione terrestre (395 metri sotto il livello del mare), è ampia:

Questo lago, di un perimetro immenso, simile a un mare ma di un sapore più disgustoso, pestilenziale ai vicini, per il suo fetore, non è mai mosso dal vento e non ha pesci né i soliti uccelli acquatici. Onde inerti sorreggono, come se fossero solide, gli oggetti che vi vengono buttati dentro, e quindi chi sa nuotare e chi non sa nuotare vi galleggia allo stesso modo. A una certa epoca dell’anno butta fuori il bitume e l’esperienza - maestra di ogni arte - insegnò il modo di raccoglierlo. È un liquido nero che, sparso di aceto, si coagula e galleggia. Gli incaricati lo afferrano con le mani e lo tirano sul bordo delle barche; da lì, senza bisogno di intervenire, continua a colare nell’imbarcazione e riempie la nave, finché non se ne interrompe il flusso (Historiae V, 6).

Il quadro che circonda il Mar Morto è desolato, la terra è arida:

Non lontano ci sono dei campi e si dice che, un tempo, fossero fertili e coperti di grandi città, ma che in seguito siano stati bruciati dal fulmine. Ne rimasero le rovine e la terra stessa, quasi riarsa, ha perso la facoltà di generare. Infatti, tutti i prodotti del suolo, sia spontanei che coltivati, appena sbocciano in forma di stelo o di fiore, o si sviluppano assumendo l’aspetto consueto, diventano neri, vuoti e svaniscono in cenere. In quanto a me, voglio ammettere che delle città un tempo illustri siano state distrutte dal fuoco del cielo, ma credo anche che la terra sia infetta per le emanazioni del lago, che corrompe l’aria sovrastante, e che quindi tutti i frutti dei seminati e dell’autunno imputridiscano, perché sia il cielo che la terra sono ammorbati (Historiae V, 7).

L’attenzione alle peculiarità del Mar Morto è superiore allo spazio riservato per la descrizione della città di Gerusalemme, riservato alle prime righe del capitolo VIII:

Gran parte della Giudea è divisa in villaggi, ma hanno anche delle città. Gerusalemme ne è la capitale. Ivi c’era un tempio di ricchezza immensa; la città era chiusa da una prima cinta di mura, poi c’era la reggia e quindi il Tempio, chiuso da una cinta interna.

Gerusalemme era difesa a settentrione da una triplice cinta di mura, mentre a sud un semplice muro accompagnava le già valide difese naturali. La reggia citata è il palazzo di Erode, mentre il Tempio, di epoca erodiana, è ubicato nello stesso luogo di quello costruito dopo l’esilio babilonese, più ampio, però, e alto il doppio. Con i lavori fatti realizzare da Erode, si crearono tre atri: nel primo, quello dei Gentili, aperto anche ai pagani (stranieri), si potevano incontrare cambiavalute e venditori di animali per i sacrifici; vi era, poi, l’atrio delle donne e quello degli israeliti (per gli uomini); infine, un limen (soglia) separava l’atrio dei sacerdoti all’interno del quale si trovava il Santo a cui i sacerdoti accedevano due volte al giorno; il Sancta Sanctorum (Santo dei Santi) era una stanza cubica, luogo della presenza divina ove accedeva il sacerdote una volta all’anno.

Dopo che i Macedoni ebbero conquistato il potere, re Antioco fece un tentativo per cancellare quella superstizione e dar loro delle usanze greche, allo scopo di migliorare quella gente estremamente cupa.

Tacito fa riferimento al re Antioco III e alle campagne contro la Giudea del 199-198 a. C. Poi, sintetizza le vicende dei Romani in quella regione, dall’inizio dell’influenza romana con Pompeo nel 63 a. C. all’istituzione della provincia sotto Augusto (la Giudea), affidata a un governatore romano. Si susseguirono momenti di pace (sotto l’imperatore Tiberio) ad altri di scontri (quando l’imperatore Caligola volle porre la sua statua all’interno del Tempio). La morte di Caligola fece cessare la sollevazione dei Giudei.

L’odio dei Giudei nei confronti del dominio romano esplose nel 66 d. C. quando il procuratore Gessio Floro entrò nel Tempio per prelevarne parte del tesoro e fece impiccare dei Giudei. Allora divampò la rivolta:

Con vario esito ma il più spesso a lui contrario, affrontarono il legato di Siria, Cestio Gallo, che tentava di reprimerla. Quando questi morì, di malattia o di crepacuore, Vespasiano, mandato da Nerone, avendo con sé la fortuna, la gloria e degli ottimi ufficiali, occupò saldamente la maggior parte del paese e tutte le città, eccetto Gerusalemme, nel corso di due estati. L’anno seguente, tutto preso dalla guerra civile, passò inoperoso per quanto concerne i giudei. Tornata la pace in Italia, si tornò anche a pensare alla politica estera. Il risentimento contro i giudei era aumentato, perché erano i soli a non essersi arresi. E sembrava anche opportuno che Tito rimanesse a capo dell’esercito, pronto a ogni intervento e a ogni nuova necessità della nuova dinastia (Historiae V, 10).

Sulla guerra giudaica ci rimangono solo pochi capitoli delle Historiae di Tacito, mentre lo storico Flavio Giuseppe (ca 37-38 d. C. – ca 100 d. C.) la racconta nell’opera monografica La guerra giudaica.