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Chiese aperte, il "bluff" del Governo e la Cei sottomessa

Cei sottomessa al Governo. Il Viminale non può dettare regole per la Settimana Santa se manca una regolamentazione. Il sospetto che si vogliano Vescovi ancora più remissivi. È ora di reagire, i fedeli uscirebbero schiacciati da questa vicenda.
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Libertà religiosa 29_03_2020

Che natura ha la nota del 27 marzo del Dipartimento per le libertà civili inviata al Sottosegretario della CEI? Cosa è? Il Ministero dell’Interno fornisce “chiarimenti” in risposta a dei “quesiti” posti dai vescovi: fornendo l’interpretazione dei provvedimenti adottati per l’emergenza Covid 19 con riferimento alle questioni dell’accesso alle chiese e delle celebrazioni.

Il Governo, autore delle norme, ne fornisce un’interpretazione. Di per sé, è normale che un Ministero fornisca indicazioni atte a favorire l’applicazione di un provvedimento di nuova emanazione: ad esempio, le Forze dell’ordine sono facilitate nell’effettuare i controlli se una circolare spiega in dettaglio il contenuto di una norma. È certo, però, che l’interpretazione del Ministero può non essere esatta ed essere smentita dai Giudici (amministrativi, civili, penali) cui si rivolgono i destinatari delle norme: ad esempio, un TAR potrebbe annullare un provvedimento che ordinasse una chiusura, oppure un giudice potrebbe farlo con le sanzioni (civili o penali) irrogate per presunte violazioni, affermando che non si tratta affatto di violazione alla norma oppure che la norma è illegittima e deve essere disapplicata. In un sistema come il nostro, l’interpretazione esatta di una norma è quella data dai giudici, non quella del Governo che, altrimenti, potrebbe modificarne, con la sua interpretazione, il contenuto effettivo.

Non è un esempio casuale: nella Nota si afferma che l’accesso alla chiesa può avvenire solo se l’edificio sacro si trova sul percorso per giungere ad altri luoghi (lavorativi o di necessità); o, ancora, che le celebrazioni liturgiche possono svolgersi senza la partecipazione del popolo, ma con la presenza degli accoliti. Ci si chiede: dove stanno scritte queste regole? Il DPCM dell’8 marzo (esteso a tutto il territorio nazionale il giorno successivo) si limita a condizionare l’apertura delle chiese all’adozione di misure organizzative finalizzate alla sicurezza per i frequentatori e a sospendere “le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”: c’è forse scritto che il Ministero dell’Interno può stabilire ulteriori regole, stabilendo che la chiesa deve essere necessariamente una “tappa” di un percorso più lungo o quante e quali persone possono trovarsi al suo interno durante una messa (gli accoliti sì, i fedeli no)? Assolutamente no.  

Purtroppo questa Nota – che è bene sia stata resa pubblica – dimostra ben altro: che, a fronte di una libertà religiosa garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino, a ciascun cattolico, la CEI ha assunto un determinato atteggiamento e il Governo ne ha approfittato. Non è la prima volta che il Governo fornisce un’interpretazione alla CEI: come risulta dalla nota della Segreteria Generale del 15 marzo, i vescovi, in vista dell’approvazione dei decreti dell’8 e del 9 marzo, dopo avere avuto “ripetuti contatti con la Presidenza del Consiglio e con alcuni ministri”, in cui avevano chiesto che non venisse proibita la celebrazione della Santa Messa, a fronte del decreto dell’8 marzo che sospende varie cerimonie religiose, ivi comprese quelle funebri, avevano ottenuto la fissazione di una riunione, ma il Governo aveva chiuso “definitivamente la discussione”; cosicché quella sera, la Segreteria aveva preso atto che “l’interpretazione fornita dal Governo include rigorosamente le Sante Messe tra le cerimonie religiose” e subito a tutti i parroci era stata vietata la celebrazione delle Messe con il popolo.

Guarda un po’: oggi il Ministero dell’Interno afferma che “le celebrazioni (liturgiche) non sono in sé vietate”, così come – dopo che le persone sono state rimandate a casa con l’affermazione che le chiese sono chiuse – che “non è prevista la chiusura delle chiese” e che “è evidente (notate: evidente!) che l’apertura delle chiese non può precludere alla preghiera dei fedeli”; ancora: che “i matrimoni non sono vietati in sé, sia pure con la presenza del solo celebrante, dei nubendi e dei testimoni” (quanti matrimoni sono stati rinviati? Nel matrimonio celebrato dal sindaco di Nuoro c’erano anche i “parenti”…).

Perché queste osservazioni? Mi sembra chiaro che il Governo e il Ministero dell’Interno, di fronte all’atteggiamento remissivo della CEI (“diteci cosa possiamo fare!”) hanno spinto poliziotti e carabinieri a mostrare la faccia dura (“le chiese sono chiuse! La messa deve essere interrotta! Vi denunciamo!”), salvo essere costretti ad una mezza ritirata di fronte ad una richiesta di chiarimenti scritta, pur continuando a proporre soluzioni fantasiose e creative (la chiesa come tappa di un percorso, la Messa con gli accoliti ma senza i fedeli ecc.).

In un regime di libertà e diritti, come il nostro, l’atteggiamento di un cittadino è diverso: se ho un diritto lo esercito; se mi viene contestata la violazione di un divieto e io ritengo che la violazione non ci sia o il divieto sia illegittimo, impugno la sanzione e mi rivolgo al giudice, così da dimostrare che l’interpretazione della polizia è errata e viola i miei diritti. In questo caso la CEI, per “fare la propria parte”, in piena sottomissione al Governo ha direttamente impedito ai fedeli di partecipare alle Messe, sulla base di quell’interpretazione che, oggi, viene parzialmente smentita.

Tutto questo mi sembra molto istruttivo: anche perché il bluff sta continuando e i Vescovi rischiano di avere lo stesso ruolo.

Abbiamo visto che la Nota fa riferimento ai riti della Settimana Santa, prevedendo addirittura che ad essi potranno essere presenti solo, oltre ai celebranti, “il diacono, il lettore, l’organista e il cantore” (evidentemente i matrimoni devono invece essere celebrati senza musica…). Una cosa è certa: i decreti dell’8 e del 9 marzo perdono la loro efficacia il 3 aprile 2020 (è previsto espressamente); quindi, per imporre “limitazioni all’accesso ai luoghi di culto”, il Presidente del Consiglio dei Ministri dovrà necessariamente adottare nuovi decreti e dovrà farlo sulla base del nuovo decreto-legge del 25 marzo, che (come abbiamo già visto) non è identico a quello del 23 febbraio. Senza questi nuovi DPCM, nessuna limitazione sarà efficace.

E allora come fa il Dipartimento per le libertà civili (sic!) a dettare regole per la settimana dal 5 al 12 aprile (dalla Domenica delle Palme alla Pasqua), se manca una regolamentazione?

La risposta giuridica è: non può farlo. Quanto avvenuto nelle settimane precedenti ci fa, però, sospettare che il “gioco” sia diverso: poiché sono in preparazione i nuovi decreti, si sta cercando di capire se – anche questa volta – i Vescovi saranno remissivi, se saranno disposti ad allargare le braccia e dire ai fedeli: abbiate pazienza, hanno deciso così …

Se questo sarà l’atteggiamento, allora i decreti che saranno emessi avranno esattamente il contenuto già presente nella Nota.

Forse è il momento di reagire; non certo per creare conflitti in una situazione come quella attuale, ma per proporre soluzioni che rispettino il diritto dei fedeli a partecipare ai riti della settimana più importante dell’anno liturgico. Perché, ad esempio, non differenziare la disciplina a seconda dei vari luoghi (come prevede il decreto-legge del 25 marzo)? Visto che i parroci hanno diligentemente adottato le misure necessarie ad evitare assembramenti e a garantire la distanza di un metro dei fedeli, perché non ammettere nelle chiese un numero di persone proporzionato alla superficie utile?

La reazione – come è evidente – riguarda tre aspetti: i rapporti tra i cittadini e lo Stato, quelli tra lo Stato e la Chiesa e quello tra la Chiesa e i fedeli: non vorrei che i fedeli/cittadini escano schiacciati da questa vicenda.