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L’intesa con Trump

L’umiliazione sui dazi spinga l’Europa a cambiare rotta

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Von der Leyen ha accettato un compromesso che evita un conflitto commerciale, ma rappresenta una resa per l’Ue, troppo tecnocratica e ideologica. Ma questa sconfitta può trasformarsi in opportunità, se Bruxelles rivedrà le sue politiche, innanzitutto abbandonando il Green Deal.

Editoriali 30_07_2025
Von der Leyen e Trump, 27 luglio 2025, Turnberry-Scozia (Ap via LaPresse)

Donald Trump ha ottenuto ciò che voleva: l’Unione Europea ha ceduto nella difficile partita sui dazi, accettando un compromesso che, pur evitando un conflitto commerciale aperto, rappresenta una resa poco onorevole. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha cercato di attenuare l’amarezza presentando l’intesa come un risultato accettabile, lodando – non senza un certo pathos – le «abilità negoziali» del leader statunitense: chi si accontenta gode, insomma. E Trump, fedele al suo stile, ha infierito elogiando l’«eccezionale accordo» raggiunto con l’Europa.

L’intesa, firmata domenica 27 luglio, scongiura l’entrata in vigore di dazi fino al 30% a partire dal 1° agosto. Tuttavia, le tariffe concordate si attestano comunque intorno al 15%, triplicando i livelli precedenti: una vittoria di Pirro per Bruxelles. L’Europa ha dovuto cedere a un compromesso penalizzante piuttosto che affrontare una guerra commerciale che non sarebbe stata in grado di sostenere. Trump, con il suo approccio ruvido e anche rozzo, ha dimostrato che dietro le provocazioni vi era una strategia precisa e dietro la sua apparente follia un “metodo” tutt’altro che inefficace. L’Europa ha perso, ancora una volta, mostrando al mondo la propria inconsistenza e irrilevanza, il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro nel nuovo scacchiere geopolitico multipolare che si sta ridisegnando sotto i nostri occhi.

Questa sconfitta europea è in larga misura il riflesso della debolezza strutturale dell’Unione: un organismo burocratico, ideologicamente sbilanciato, tecnocratico e privo di coesione interna. La governance a trazione franco-tedesca si è rivelata inadeguata a sostenere uno scontro negoziale con una potenza compatta come gli Stati Uniti. Non è dunque la von der Leyen la sola responsabile, ma piuttosto un’Unione incapace di parlare con una sola voce. La Germania, in particolare, esce gravemente colpita. Già penalizzata dalla cessazione delle forniture di gas russo a basso costo e dalla folle transizione energetica “verde”, ora subisce un duro colpo anche sul fronte dell’export verso gli Stati Uniti, da sempre punto di forza del suo surplus commerciale. Le ripercussioni si faranno sentire anche in Italia, fortemente integrata nella catena produttiva tedesca. La Francia, meno esposta sul piano energetico e commerciale, limita i danni economici ma non l’umiliazione politica.

L’accordo prevede un rialzo significativo dei dazi in vari settori, con eccezioni parziali per il settore automobilistico, dove le tariffe precedenti si spingevano già al 27%. Resta invece elevata – al 50% – la tassazione su acciaio e alluminio, mentre sul settore farmaceutico permangono aree di incertezza. I dettagli esecutivi dell’intesa saranno definiti nelle prossime settimane, ma difficilmente si discosteranno dai margini già stabiliti. Il deficit commerciale degli Stati Uniti verso l’Europa – circa 200 miliardi di dollari l’anno sulle merci, mentre sui servizi gli USA registrano un attivo di circa 150 miliardi – rende evidente l’entità della posta in gioco.

Da un punto di vista macroeconomico, l’unico elemento positivo è la rimozione dell’incertezza, che da sempre rappresenta il peggiore nemico degli investimenti. Tuttavia, per economie esportatrici come quella italiana, il contraccolpo sarà inevitabile. Vi è anche il rischio che i governi europei cedano alla tentazione di attutire l’impatto con nuovi sussidi pubblici, alimentando ulteriormente il meccanismo clientelare a scapito dei contribuenti. La competitività dell’export europeo sarà influenzata anche dal cambio euro/dollaro: il recente deprezzamento del dollaro – circa il 10% da inizio anno – si aggiunge infatti all’impatto dei dazi. Un ritorno verso la parità sarebbe invece l’unico fattore capace di bilanciare, almeno parzialmente, l’erosione dei margini per le imprese europee, anche se aggraverebbe inevitabilmente i costi delle importazioni, in primis quelle energetiche.

Nel pacchetto rientra anche l’impegno, da parte europea, a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti, anche se non è chiaro chi effettivamente dovrebbe effettuare questi investimenti. A ciò si aggiungono ulteriori impegni per l’acquisto di forniture energetiche e armamenti statunitensi, per un totale stimato di 750 miliardi di dollari nei prossimi tre anni. In parallelo, il vincolo Nato a portare le spese militari al 5% del PIL spalanca le porte a un piano di “riarmo” che avvantaggerà in primis l’industria bellica americana, mentre l’Europa, ancora impreparata, rischia di subire passivamente questa nuova ondata di keynesismo militar-industriale. A completare il quadro manca solo un eventuale invito a investire massicciamente in titoli del debito pubblico americano. Trump avrebbe così completato un “cappotto” strategico.

Naturalmente, i dazi comportano anche un prezzo interno per gli Stati Uniti: si tratta pur sempre di una tassa, per quanto indiretta, pagata da imprese e consumatori. Non è questo, quindi, il motivo per cui quella di Trump si può considerare una vittoria, e l’auspicio, per gli stessi Stati Uniti, è che i dazi vengano rivisti al ribasso e rimossi quanto prima. Trump, tuttavia, li ha utilizzati come leva di pressione, un’“arma di negoziazione” per piegare i partner commerciali a seguire i diktat statunitensi, con l’obiettivo di riequilibrare una bilancia commerciale storicamente in deficit (circa 900 miliardi di dollari annui) e rilanciare l’industria manifatturiera americana, in forte difficoltà. In tal senso, si deve riconoscere che Trump ha raggiunto uno dei propri obiettivi chiave di tipo economico-finanziario, indebolendo l’Europa e ribadendo chi detiene la leadership in Occidente. L’accordo potrà essere rivisto in futuro, ma intanto segna un precedente: le relazioni commerciali diventano terreno di confronto politico diretto, il che non può che aumentare l’instabilità globale. Gli Stati Uniti, intanto, si trovano ad affrontare un disavanzo di bilancio crescente – oltre 500 miliardi di dollari in più ogni trimestre – e questo spiega, in parte, la natura aggressiva della loro politica economica.

L’Unione Europea, dal canto suo, dovrebbe sfruttare questa crisi come opportunità per rivedere radicalmente le proprie politiche, a partire da una transizione ecologica fallimentare, che rischia di portare alla deindustrializzazione del continente. L’energia costosa, l’assenza di fornitori affidabili a basso costo, e l’aumento delle spese militari renderanno sempre più difficile sostenere la competitività e il potere d’acquisto dei cittadini europei. L’unico sollievo, paradossalmente, è che Bruxelles non ha imposto dazi di ritorsione: una scelta più per necessità che per virtù, ma che ha evitato di appesantire ulteriormente il già gravoso carico fiscale sugli europei.

Un cambio di rotta drastico a Bruxelles è oramai ineludibile: innanzitutto abbandonando il Green Deal, quindi procedendo a una radicale deregolamentazione per restituire slancio ai propri sistemi economici oggi soffocati da un’eccessiva ingerenza statale. L’architettura comunitaria va urgentemente rivista: l’alternativa non è il collasso immediato, ma un lungo e inesorabile declino.