Poca economia e molta geopolitica nella guerra dei dazi di Trump
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I dazi sono un danno per tutti, anche per chi li impone. C'è una vasta letteratura in merito, basata su tutte le esperienze precedenti. Però i dazi di Trump, per ora, sono un'arma negoziale usata temporaneamente. Si spera.
Trump ha dichiarato una guerra commerciale al resto del mondo. La necessità di riequilibrare la bilancia commerciale in disavanzo strutturale e crescente da 50 anni, insieme alla volontà di innescare una rinascita manifatturiera negli Usa, sono gli obiettivi economici dichiarati. Ma la posta in gioco è molto più grande, ed è di natura geopolitica.
Mantenendo fede ai propri impegni elettorali, Trump ha dichiarato di volere imporre dei dazi del 25% sulle importazioni da Canada e Messico, insieme a ulteriori tariffe sui prodotti cinesi, per un extra 10%. Come contro-misura, il Canada e la Cina hanno già risposto dicendo di volere imporre dazi sui prodotti statunitensi. Con un interscambio del 15% il Canada è il principale partner commerciale degli Usa, seguito dal Messico (14%) e dalla Cina (13%).
La bilancia commerciale statunitense, per la componente di beni e merci (non per i servizi dove si registra un attivo) è in forte e crescente disavanzo dal 1976, che si aggira al momento sui 900 miliardi di dollari annui. Ciò si aggiunge al pesante deficit federale, pari a circa 1.915 miliardi di dollari annui, con un debito consolidato superiore a 36mila miliardi di dollari (il 122% del PIL). Non stupisce che Trump consideri una priorità di sicurezza nazionale riportare i conti in ordine: sia quelli con l’estero, sia quelli fiscali attraverso un drastico taglio della spesa pubblica per riportare il bilancio in pareggio, come risulta dal compito assegnato al DOGE, il nuovo Dipartimento di Efficienza Governativa guidato da Elon Musk. Contenere il twin deficit, il deficit gemello, è necessario per assicurare la stabilità finanziaria ed economica del Paese, lo status del dollaro come divisa di riserva globale, la credibilità del debito pubblico e quindi anche la supremazia americana sul piano geopolitico.
I maggiori deficit commerciali gli Usa li registra con Cina, Messico, Vietnam, Canada, Germania, Giappone e Irlanda. Anche l’Europa subirà l’imposizione di tariffe: forse lineari del 10% su tutti i prodotti comunitari esportati negli Usa o magari, come si sente dire, differenziate per pesare di meno su Paesi “amici” come l’Italia. Come contromisura l’Unione Europea deciderà inevitabilmente dei dazi sui beni importati dagli Stati Uniti, che dovranno essere applicati da tutti i Paesi membri. Il deficit commerciale statunitense nei confronti dell’Europa è di circa 180 miliardi di dollari annui, si tratta quindi di una cifra rilevante, che comporterà aggiustamenti molto pesanti.
Trump ha dichiarato che l’introduzione di dazi andrà a beneficio delle imprese e dei lavoratori statunitensi, per porre termine ai vantaggi ingiusti delle mega-corporazioni, ben connesse politicamente, oltre che per riequilibrare la bilancia commerciale, cronicamente in deficit. È vero che sull’americano medio negli ultimi decenni sono ricaduti i costi di un sistema di “capitalismo clientelare”, all’interno del Paese, e di una proiezione “imperiale” all’esterno, assai elevati. Si tratta però dei costi dello statalismo – ad intra e ad extra –, non dei costi di un preteso “eccesso” di libertà. Il problema è che i dazi altro non sono che nuove tasse, che se potranno proteggere alcune industrie ne danneggeranno inevitabilmente altre, e colpiranno tutti i cittadini in quanto consumatori. Trump ha dichiarato che vorrebbe eliminare l’imposta federale sul reddito, il che sarebbe un’ottima cosa, sostituendola con gli introiti dei dazi, ricordando che nell’America di fine Ottocento l’imposta federale non esisteva e che i dazi assicuravano gettito sufficiente. Guardando i numeri attuali ciò è inverosimile, e il rischio concreto è invece quello di ritrovarsi con una nuova tassa, che per di più andrebbe a distorcere il sistema dei prezzi, fornendo di conseguenza cattivi segnali agli investimenti e al sistema economico in generale.
Siccome i dazi sull’import si applicherebbero non solo ai beni di consumo finali ma anche ai beni di investimento, imponendo così nuovi costi sui produttori, si correrebbe il rischio di portare in perdita business che operano già in situazioni di marginalità: meno output comporta poi inevitabilmente tagli all’occupazione e rialzo dei prezzi. È vero che l’industria manifatturiera statunitense soffre da anni, non è vero però che la causa sia il libero scambio: il colpevole va ricercato nell’eccessiva regolamentazione, nelle politiche inflazionistiche, nella forte tassazione e nel capitalismo clientelare che falsifica la concorrenza. Se l’obiettivo è abbattere la pressione fiscale appare più che sufficiente l’azione assegnata al DOGE: prima si taglia la spesa pubblica, che rappresenta una pressione fiscale “implicita”, e poi si potrà tagliare anche la pressione fiscale “esplicita”. Agendo contemporaneamente sulla deregolamentazione e sull’incremento degli investimenti negli idrocarburi, che consentiranno di abbattere il costo dell’energia, si potrà contenere l’inflazione, causata proprio dalla spesa pubblica in deficit e dal Green New Deal (oltre che dall’espansione della liquidità, innescata dalla dilatazione del Bilancio della Fed e dalla politica dei rendimenti reali negativi conseguenti alle politiche di repressione finanziaria degli anni passati).
Insomma, se l’obiettivo fosse soltanto legato all’economia, per rilanciare una ripresa manifatturiera negli Stati Uniti, le azioni sopra indicate sarebbero più che adeguate e non si comprenderebbe il motivo di aggiungere anche politiche protezionistiche, che contribuirebbero inevitabilmente a spingere l’inflazione ai danni dei propri concittadini, oltre a distorcere la concorrenza e a incrementare tensioni col resto del mondo. Il protezionismo si presenta come una scelta pragmatica di politica commerciale per difendere l’industria nazionale ma in realtà è una “fallacia economica”, che alla fine dei conti danneggerebbe proprio la classe media che si vorrebbe difendere. Trump dovrebbe poi fare attenzione alle “conseguenze non intenzionali delle azioni intenzionali”: come insegna la Scuola Austriaca di economia, infatti, vi è sempre il rischio di ottenere risultati molto diversi da quelli desiderati. La politica dei dazi potrebbe così sabotare involontariamente il progetto trumpiano MAGA-Make America Great Again, di “rendere l’America nuovamente grande”. In alternativa alla scelta protezionistica come “arma di negoziazione” unica o principale, gli Usa potrebbero ottenere i propri obiettivi “politici” anche minacciando di togliere aiuti internazionali oppure di ridurre la protezione militare, o con altre ritorsioni.
Siccome i rischi del protezionismo sono universalmente noti, ripetutamente confermati dall’esperienza storica e generalmente riconosciuti anche da scuole economiche differenti, è verosimile che le politiche di Trump facciano parte di una strategia più ampia per rompere equilibri consolidati e rimescolare le carte. È probabile che gli Usa intendano usare i dazi, anzi la minaccia di dazi, come “armi non convenzionali” per piegare avversari e partner commerciali ad accettare le nuove politiche americane: è quanto è accaduto col governo colombiano, che ha finito per riprendersi dei propri connazionali entrati illegalmente negli Usa, e anche con il Messico che ha promesso di schierare 10mila soldati al confine per controllare i flussi migratori clandestini e i flussi di droga verso gli Stati Uniti. I dazi minacciati contro la Colombia, infatti, sono stati revocati e quelli contro il Messico sospesi per un mese, e lo stesso è avvenuto per il Canada di Trudeau che si è impegnato a controllare con grande attenzione i confini con gli Usa. Con l’Europa probabilmente gli Stati Uniti metteranno i dazi sul piatto della bilancia per costringere gli alleati ad aumentare le spese militari verso il 5% del PIL, importando armamenti dagli Usa, oltre che ad incrementare l’import di gas naturale liquefatto. E chissà cos’altro. Anche i dazi verso la Cina sembrano finalizzati, più che a riequilibrare la bilancia commerciale, a porre un termine al traffico del Fentanyl, un potente oppioide sintetico della droga prodotto nei laboratori cinesi e poi transitante negli Usa tramite i cartelli messicani.
Sembra che Trump voglia ridisegnare la geopolitica, riproponendo un’edizione aggiornata della dottrina Monroe (dal nome del Presidente James Monroe, che nel 1823 formulò l’idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano). Il pieno controllo delle Americhe, a partire dalla “normalizzazione” di Canada e Messico, è sicuramente il primo obiettivo geopolitico: su questo fronte Trump ha già “portato a casa” la decisione di Panama di non rinnovare, o addirittura di rescindere anticipatamente, l’accordo con la Cina sulla “Belt and Road Initiative”, la cosiddetta nuova “Via della Seta”, per rompere il controllo cinese de facto sul Canale di Panama.
Il prossimo obiettivo è quello di allontanare la Federazione Russa dalla Cina, ridefinendo le sfere di influenza con un riconoscimento reciproco. Saltando qualsiasi mediazione europea, dato che Trump non riconosce nemmeno l’Unione Europea come “soggetto politico”, ma mira anzi a destabilizzarla giocando di sponda con rapporti bilaterali con Paesi “amici”, come con l’Italia della Meloni. L’appoggio esplicito di Elon Musk ad Alternative für Deutschland nelle elezioni in Germania del 23 febbraio è un evidente tentativo di scardinare l’asse franco-tedesco che esprime l’establishment bocciato dalle urne alle elezioni europee dello scorso giugno ma che rimane saldamente al potere. L’auspicio è che il terremoto del movimento MAGA – Make America Great Again possa innescare un processo di reset delle pseudo-élites socialiste-liberali-verdi che guidano l’Europa, aprendo la strada a un movimento MEGA – Make Europe Great Again, un’Europa davvero “mega”, grande, dall’Atlantico agli Urali, che ritorni in sé e sappia recuperare la centralità perduta nello scacchiere internazionale. Un esito tutt’altro che scontato, ovviamente, ma che con l’Amministrazione Biden-Harris sarebbe stato impensabile.
Se quindi il giudizio puramente economico sulla politica dei dazi Usa non può che essere negativo, credo che occorra sospendere il giudizio sugli effetti complessivi che la nuova amministrazione si sta prefiggendo. Anche perché è ben conosciuta la capacità negoziale di Trump, le cui “sparate” servono spesso come ballon d’essai, con un uso sapiente dell’ambiguità e del bluff come armi per mantenere l’avversario nell’incertezza. Certo è che se la politica protezionistica dovesse invece essere attuata su tempi lunghi, gli effetti sull’economia globale, sull’inflazione e sul benessere non potrebbero che essere molto negativi. In Europa in particolare per la Germania, oltre che per l’Italia dove gli Usa rappresentano il terzo partner commerciale per importanza dopo Germania e Francia.
Bene, quindi, la lotta di Trump al globalismo ideologico, anche con armi non convenzionali; male, però – se così dovesse essere – il venir meno della globalizzazione economica, che ha tirato fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone negli ultimi decenni. La difesa delle sovranità nazionali contro le prospettive di governance globale portate avanti dal WEF, dall’Onu e dalla Commissione Europea è ottima cosa, ma il ritorno al “sovranismo economico” danneggerebbe tutti, chi più chi meno. Stiamo a vedere, la guerra commerciale, e quella geopolitica, sono appena incominciate. Senza esclusione di colpi.