Chi punta sul cambio di regime a Mosca mette a rischio l'Europa
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Afghanistan, Iraq, Libia, primavere arabe: la storia sembra non insegnare nulla agli atlantisti dottrinari, i più accaniti nel sostenere la linea Biden-von der Leyen-Zelensky, che per Putin contempla solo la resa e il crollo...
- La controffensiva ucraina segna il passo, di Gianandrea Gaiani
Non sono servite a nulla, a quanto pare, la lezione dell'Afghanistan, quella dell'Iraq, quella della Libia, quella delle “primavere arabe”. I paladini più accaniti e ideologizzati della linea Biden-von der Leyen-Zelensky – quella che cerca lo scontro frontale con la Russia sulla questione ucraina, vuole la guerra ad oltranza e non contempla alcuna possibilità di compromesso o trattativa con Putin ma solo la resa incondizionata di quest'ultimo – non riescono proprio a sottrarsi alla loro irrefrenabile attrazione per l'idea del regime change come obiettivo della strategia statunitense/occidentale di politica internazionale.
Membri degli apparati statunitensi, analisti di relazioni internazionali e geopolitica, giornalisti da talk show, di provenienza sia “neo-con” che progressista, sono uniti oggi dall'allineamento come pasdaran “atlantisti”: appartenenza che, rivendicata nel contesto della dialettica politica attuale, significa il più delle volte soltanto una posizione progressista tendenzialmente woke con pretese di uniformare tutto il pianeta ai canoni etico-politici delle super-élite americane.
L'obiettivo del cambio di regime, con relativa “esportazione” del Washington consensus oltre gli Urali, è stato teorizzato esplicitamente da questi occidentalisti dottrinari fin dall'inizio della guerra tra Mosca e Kiev, evocando la possibilità che la pressione di armi e sanzioni occidentali facesse collassare il potere dello “zar” moscovita. E, naturalmente, appena si sono palesate nei giorni scorsi le pesanti divisioni interne a quel potere, sfociate addirittura nell'ammutinamento della divisione Wagner di Evgenij Prigozhin, i “pasdaran” hanno subito manifestato il loro entusiasmo. Così è scattato immediatamente il tifo sfegatato per i mercenari ribelli, innalzandoli all'istante dalla condizione di pericolosi criminali neonazisti a quella di limpidi eroi patriottici, e subito decretando che la imminente deposizione dell'”autocrate” avrebbe sancito la definitiva sconfitta russa nella guerra ucraina. Lo spegnimento subitaneo della rivolta li ha poi costretti a ridimensionare decisamente le loro speranze; ma essi continuano a sostenere che la politica occidentale avrebbe indebolito Putin in misura decisiva, aprendo la strada a prospettive vittoriose per l'Ucraina e per quella che loro vedono come una ”alleanza delle democrazie”.
Intendiamoci: il fatto che la pressione degli investimenti militari e delle sanzioni occidentali, la gestione faticosa di una “operazione militare speciale” molto più lunga e complessa di quanto pensassero inizialmente i vertici del Cremlino, la formazione di oligarchie di potere come appunto la Wagner dovute alla inefficienza dell'esercito regolare, abbiano prodotto forti tensioni e conflitti nel regime russo è innegabile. Ma, in primo luogo, ciò non vuol dire che essi comportino una sostanziale modifica degli equilibri sul campo di battaglia a sfavore di Mosca.
Le risorse economiche, militari e demografiche della Russia – grazie anche al supporto concreto di tutta l'area dei paesi BRICS - restano sufficienti a continuare a condurre una lunga guerra di logoramento che invece l'Ucraina non si può permettere, per la impossibilità che i paesi Nato continuino a lungo a sostenerla ai livelli attuali. In secondo luogo, e cosa ben più importante, l'insostenibilità della posizione dei “pasdaran” occidentalisti lib-con va molto oltre questo ottimismo piuttosto avventato. Il motivo fondamentale per cui essa non sta in piedi consiste nel fatto che, se anche si realizzasse la loro più audace speranza, cioè la caduta del regime putiniano, le conseguenze sarebbero certamente molto peggiori, per l'Ucraina e per gli interessi dell'Occidente, della situazione attuale.
La Russia infatti è una nazione che trae la sua stessa ragion d'essere dall'eredità di un impero millenario unificante storicamente svariate identità culturali ed etniche, simbolicamente rappresentato da una leadership personalistica. Per questo la Russia, nell'epoca post-zarista e post-sovietica, si trova costantemente di fronte ad un'alternativa esistenziale drammatica: o un certo grado di rappresentazione e proiezione imperiale del potere, o la prospettiva di una potenziale dissoluzione.
Gli ideologi occidentalisti odiano ammetterlo, ma sotto il potere di Vladimir Putin il paese ha raggiunto un equilibrio complessivamente gestibile tra le due tendenze, in grado di garantirne la stabilità, la persistenza dei processi di modernizzazione, l'inserimento, sia pur non in posizione dominante, nel mercato e nella governance globale. Il regime russo non è una dittatura a partito unico come la Cina, ma una federazione con un certo grado di dialettica pluralista interna, controbilanciata da un governo centrale dirigista, con tratti apertamente autoritari sui temi “caldi” della ragion di Stato e della politica di potenza.
Soprattutto, nel quadro dell'opinione pubblica e degli schieramenti politici Putin è considerato sostanzialmente nel paese un “moderato”. I suoi oppositori, nella stragrande maggioranza, non sono adamantini liberali di osservanza occidentale, ma nostalgici dell'Unione Sovietica o ultranazionalisti dalle tendenze razziste, scioviniste, ultraimperialiste. Se, per effetto dello stress causato dalla guerra, egli venisse effettivamente deposto, è quasi impossibile che in sua vece si instaurasse una democrazia liberale rispettosa dei diritti umani e incline alla pace nei confronti degli ucraini e dell'Occidente.
Al contrario, gli scenari più verosimili sarebbero o un potere ancora più aggressivo verso l'esterno e repressivo all'ìnterno, o una guerra civile, con prospettive apocalittiche, dal momento che scoppierebbe in quella che è pur sempre la seconda potenza nucleare mondiale: con l'ìnnesco di un probabile “effetto domino” distruttivo in Europa orientale e Asia. La sollevazione della Wagner ha aperto uno squarcio inquietante che può facilmente far presagire, ove mai avesse avuto successo, entrambi questi possibili scenari.
In realtà la fallacia della strategia di scontro frontale perseguita da Biden, con l'appoggio di G7 e Ue, contro la Russia putiniana è direttamente discendente da quella del postulato “neo-con” dell'”esportazione della democrazia” e del regime change, rivelatosi regolarmente fallimentare per decenni in ogni contesto.
Qualsiasi analisi degli equilibri e squilibri di potenza da parte di analisti e politici occidentali dovrebbe, ormai, necessariamente partire dall'accettazione del dato di fatto per cui fuori dai confini dell'Occidente stesso non è mai attecchito un regime politico compiutamente costituzionale e liberaldemocratico, per ragioni insuperabili di differenze culturali e tra civiltà. Ciò implica che l'unica strategia realisticamente praticabile per salvaguardare il patrimonio di libertà e di diritti occidentali, e sperare che essi esercitino almeno un'influenza in altre aree del mondo, è un mix equilibrato di deterrenza militare e capacità diplomatica di costruire alleanze, e di dirimere conflitti attraverso la trattativa e il compromesso con governi anche ispirati a principi sensibilmente diversi.