Censura, quando il bavaglio è usato dai social network
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La Costituzione italiana protegge la libertà di stampa. Però un'altra forma di censura si sta facendo largo: quella praticata arbitrariamente dai social network che oscurano i contenuti. Anche se non sono editori. A farne le spese tutte le forme di pensiero non conformista. E Lino Banfi.
Il secondo comma dell’art.21 della Costituzione vieta di sottoporre la stampa ad autorizzazioni o censure. I Costituenti, con quel perentorio enunciato, vollero blindare la libertà di stampa ma, più in generale, la libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo (comma precedente), vietando interventi a gamba tesa di altri poteri e dunque ingerenze pubbliche e private.
Il trauma delle restrizioni imposte dal fascismo e, nel resto del mondo, da altri regimi autoritari, spinse i costituenti ad essere molto fermi sul punto: non può esistere libertà d’espressione se qualcuno impedisce la libera circolazione di idee e opinioni, a meno che esse non risultino eversive o lesive dei diritti altrui. La progressiva estensione della nozione di “stampa” anche agli altri strumenti informativi (emittenza radiotelevisiva e, oggi, canali web e social) trova puntuali riscontri nell’evoluzione giurisprudenziale, in particolare in sentenze additive della Corte Costituzionale, che hanno ampliato la portata applicativa dell’art.21 della Costituzione e dunque riconoscono piena copertura costituzionale anche ai mezzi telematici.
Questa premessa è doverosa per evidenziare la gravità di qualsivoglia comportamento censorio ai danni di cittadini-utenti che manifestino un pensiero alternativo a quello dominante, tanto più su fatti di particolare interesse pubblico. In questo caso non si tratta del governo o del parlamento o di un altro organo politico, bensì di piattaforme private che maneggiano, a volte in modo discutibile, il bene più prezioso di una democrazia matura e inclusiva, cioè il bene pubblico informazione. I colossi del web, nell’ordinamento giuridico nazionale e internazionale, continuano a vivere una dimensione ibrida, che oscilla tra il ruolo di semplici amplificatori di contenuti liberamente postati dagli utenti e quello di editori intenti a selezionare quei contenuti sulla base di policy aziendali non sempre trasparenti.
Le nuove norme europee come il Digital services act, che stanno per produrre effetti giuridici anche in Italia, muovono nella direzione di una crescente responsabilizzazione dei giganti della Rete sul piano della tutela dei diritti degli utenti e della lotta ai reati online, ma non sciolgono quel dilemma sulla loro natura: trasmettitori neutrali o editori che, con sofisticati e imperscrutabili algoritmi, incidono sulla scelta dei contenuti da veicolare, espungendo quelli sgraditi a qualcuno?
Ne sa qualcosa La Nuova Bussola Quotidiana, che più volte si è vista oscurare il proprio profilo social per aver dato voce a opinioni autorevoli sul piano scientifico ma disallineate rispetto all’informazione mainstream. Ne sa qualcosa il Comitato Ascoltami, che dà voce a persone con problemi di salute insorti dopo aver assunto una o più dosi di vaccino anti-Covid. Le loro testimonianze trovavano spazio su un profilo Facebook sempre più seguito nel tempo (oltre 100mila interazioni a settimana) e che, dall’oggi al domani, è stato censurato. Anche giornalisti come Francesco Borgonovo della Verità, che hanno intervistato scienziati scettici sulle strategie di contrasto al Covid utilizzate durante la pandemia, hanno subìto restrizioni dalle piattaforme social.
Eppure la tutela dell’inestimabile diritto alla salute dovrebbe nutrirsi anzitutto di informazioni certe e documentate e di evidenze scientifiche che, nel caso del Covid, sono state più volte superate da evidenze contrarie a quelle inizialmente spacciate come inconfutabili. E allora questo non può non scoperchiare il Vaso di Pandora delle numerose violazioni della libertà d’espressione che soggetti pubblici e privati, a partire dal 2020, hanno commesso impunemente, imponendo, anche attraverso virologi ed epidemiologi, visioni predeterminate dei contagi e del loro contenimento. Basterebbe armarsi di pazienza, riavvolgere il nastro e riascoltare quanto dicevano, day by day, quegli scienziati per scoprire la precarietà e volatilità delle conoscenze sul tema e riabilitare anche le voci di dissenso che provavano quanto meno a insinuare il dubbio che non tutto stesse andando bene, come retoricamente qualcuno ripeteva.
Infatti non è andato affatto tutto bene e ora dovrà essere una commissione d’inchiesta parlamentare, votata democraticamente, a chiarire dubbi e responsabilità, a beneficio del diritto dell’opinione pubblica a conoscere la verità su un evento epocale come la pandemia. Peraltro nel novembre 2020, in piena seconda ondata, anche l’Ordine nazionale dei giornalisti ritenne opportuno aggiornare il Testo unico dei doveri del giornalista, inserendo raccomandazioni stringenti sull’informazione medico-scientifica nella direzione di un maggiore pluralismo, del rispetto del contraddittorio e della sospensione del giudizio rispetto a emergenze tutte da definire nei loro contorni. Peccato che i consigli di disciplina territoriali non si siano poi mostrati granchè attivi nell’applicazione di quella importante novità deontologica.
Ma le censure sui social non riguardano solo il Covid. La chiusura, da parte di Facebook, del gruppo Noi che amiamo Lino Banfi official (27mila iscritti) a causa di un linguaggio, a detta del social, "volgare" che viola le linee guida della community, ha mandato su tutte le furie l'attore. Anche perché il linguaggio in questione sarebbe quello delle sue gag. In questo caso si configura anche una compressione del diritto alla satira, che è una delle modalità più elastiche di esercizio della libertà d’espressione. Chi l’avrebbe mai detto a un grande comico come Lino Banfi, mai censurato da nessuno, di dover subire, alla veneranda età di 87 anni, questo affronto dal signor Zuckerberg? Ma siamo proprio sicuri che sia questa la democrazia della Rete?