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INTERVISTA/PINO NICOTRI

Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile»

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Le ultime rivelazioni circa le molestie dello zio Mario Meneguzzi nei confronti della sorella Natalina, riaccendono i riflettori sulla pista familiare per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Parla Pino Nicotri, il giornalista che da subito ha indagato in questa direzione.

Cronaca 14_07_2023
Sit-in in piazza San Pietro

Lunedì scorso il tg di La7 ha rivelato l’esistenza di un carteggio risalente al settembre del 1983 in cui il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli avrebbe chiesto ed ottenuto conferma dal padre spirituale della famiglia di Emanuela Orlandi di molestie ai danni della sorella maggiore Natalina da parte dello zio Mario Meneguzzi, che sarebbero avvenute nel 1978 e che lei avrebbe confidato al sacerdote all’epoca dei fatti. Il pensiero di chi ha una certa dimestichezza con il caso della scomparsa dell’adolescente residente in Vaticano è andato subito al giornalista e saggista che per primo – e da solo – ha invitato a non scartare la pista amical-parentale.

Pino Nicotri, una vita tra La Repubblica e L’Espresso, ha dedicato quattro libri al mistero iniziato il 22 giugno 1983. Nell’ultimo, “Emanuela Orlandi: il rapimento che non c’è”, ha smontato una dopo l’altra con solide argomentazioni le piste sensazionalistiche – dai Lupi Grigi alla Banda della Magliana, dalle ossa nella Nunziatura alla tomba del cimitero Teutonico – che si sono susseguite in questi quarant’anni e che puntavano sempre il dito contro il Vaticano e la Santa Sede. La Nuova Bussola Quotidiana lo ha intervistato per fare luce sul ruolo dello zio nella vicenda della scomparsa e più in generale sulle ipotesi meno inverosimili. Ne è scaturito un colloquio che non intende – né da parte sua, né da parte nostra – trarre conseguenze definitive sulla fine di Emanuela in base alla rivelazione fatta da La7 e confermata – seppur definendole  «semplici avances verbali» e «un piccolo regalo» - il giorno successivo da Natalina in conferenza stampa.

Mario Meneguzzi è stato il protagonista dei primi mesi successivi alla scomparsa di Emanuela Orlandi, diventando il portavoce della famiglia con i media e con il telefonista che sosteneva di parlare a nome dei presunti rapitori. In un’intervista a Il Messaggero del 2008 il figlio ha ricordato come il padre  «si buttò a capofitto nella vicenda» e che  «prese, in qualche modo, la situazione in mano».

Nelle cronache dell’epoca viene riportato che Mario Meneguzzi assunse volontariamente il compito di fare da tramite tra la famiglia e il mondo esterno sebbene, come disse lui stesso, fosse  «solo lo zio» di Emanuela. Le risulta che sia andata così?
Ercole, il padre di Emanuela, mi disse che erano stati gli Orlandi a chiedere a Meneguzzi di rispondere al telefono perché loro erano troppo emotivamente coinvolti e non sarebbero stati in grado di reggere conversazioni con mitomani, presunti rapitori o emissari dei presunti rapitori. Ma c’è un altro aspetto di quelle primissime fasi che va rilevato a proposito di Meneguzzi..

Quale?
Secondo quanto mi hanno fatto notare alcuni partecipanti del mio gruppo Facebook “Vogliamo la verità su Emanuela Orlandi!”, è stato lui il primo a ventilare l’ipotesi del rapimento quando non c’era assolutamente alcunché che potesse farlo legittimamente sospettare, se non un po’ di isteria in Vaticano successiva all’attentato a Giovanni Paolo II. Nel primo lancio battuto alle ore 16 e 21 del 24 giugno 1983, quindi meno di quarantotto ore dopo la scomparsa di Emanuela, l’Ansa scrisse che  «i familiari e i colleghi del padre (…) temono un rapimento». Fu proprio Meneguzzi ad andare nella redazione dell’agenzia per dare informazioni ai giornalisti.

Un mese dopo la scomparsa, Meneguzzi fece un passo indietro annunciando in conferenza stampa che il solo rappresentante della famiglia per le comunicazioni su Emanuela sarebbe diventato da quel momento in poi l’avvocato Gennaro Egidio. Lo zio ebbe voce in capitolo in questa decisione?
Meneguzzi disse alla stampa: «Sono stato io a nominare l'avvocato Egidio, perché lo ritengo più adatto a questo genere di cose del mio legale abituale, l'avvocato Gatti». Queste dichiarazioni dello zio furono riportate all’epoca da Andrea Purgatori su Il Corriere della Sera. Si dà il caso, però, che Adolfo Gatti si fosse già occupato ai massimi livelli di  «questo genere di cose» essendo stato l’avvocato scelto come mediatore da Gianni Agnelli in occasione del rapimento della suocera, Carla Ovazza. Stupisce, inoltre, che Meneguzzi, titolare del bar della Camera dei Deputati, potesse avere come  «avvocato usuale» quello che era considerato il miglior penalista d’Italia.

Il passaggio di consegne da Meneguzzi ad Egidio coincide con quello tra i pm Margherita Gerunda e Domenico Sica alla guida delle indagini. Natalina ha raccontato in conferenza che fu quest’ultimo a chiederle delle avances dello zio durante un interrogatorio. Sica aveva sospetti su Meneguzzi in relazione alla scomparsa di Emanuela?Quando ho parlato con Sica, gli ho chiesto se avesse fatto pedinare Mario Meneguzzi per vedere se aveva contatti con i rapitori o perché nutriva dei sospetti. Lui mi ha guardato e mi ha risposto: «Forse per tutti e due i motivi». È stato evasivo. In ogni caso, Meneguzzi si accorse di quel pedinamento e chiedendo informazioni alla giovane recluta del Sisde Giulio Gangi, ottenne da lui la conferma che l’auto che lo seguiva aveva una targa "coperta", ovvero di un organo di polizia. Circostanza di cui Gangi si pentì.

Sembra però che Meneguzzi avesse un alibi e dei testimoni per quel 22 giugno: era a Torano con la moglie Lucia, la figlia Monica e la cognata Anna.
Sono sue dichiarazioni che possono essere vere come non vere perché non sono state fatte sotto giuramento e non sono supportate da prove certe. Per prove certe intendo, ad esempio, il contachilometri dell'automobile. E le testimonianze difensive fatte da familiari a favore di un loro familiare, in assenza di altri elementi di riscontro, valgono zero in Italia. Inoltre, c'è da dire che solamente 110 chilometri separano Torano da Roma. Ercole avvisò Meneguzzi del mancato rientro di Emanuela con una telefonata a mezzanotte nella casa di Torano: lo zio, teoricamente, avrebbe avuto tutto il tempo di andare e tornare da Roma. Con questo non voglio dire che Meneguzzi è colpevole, io sono garantista. Ma tra l'ipotesi che sia coinvolto Wojtyła e quella che sia coinvolto un parente o un amico di famiglia mi pare lapalissiano quale sia la più verosimile. 

Lo scambio epistolare di Casaroli col padre spirituale di Natalina Orlandi risale al settembre del 1983. L’ultimo appello del Papa è dell’agosto 1983. Crede che la Santa Sede si sia convinta sulla base della risposta del padre spirituale di Natalina dell’inaffidabilità della pista del terrorismo internazionale?
Potrebbe essere ma non ne sono sicuro. Questa rivelazione, però, intanto consente di scoprire che il Vaticano, perennemente accusato da tutti di reticenza, in realtà ha trasmesso i documenti – compresa l’informativa relativa a quest’episodio del 1978 – alle autorità italiane. Peraltro, sappiamo che il Vaticano all’epoca delle indagini permise ai servizi segreti italiani di controllare le telefonate sul proprio territorio. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le relazioni degli agenti italiani su quanto ascoltato nelle intercettazioni ai centralini vaticani. Si può dire che il Vaticano ha collaborato oltre il proprio dovere. E poi, mi lasci dire, che questa storia che se un Papa fa un appello i rapitori si allineano pecca di presunzione. Lo aveva dimostrato già l’appello di Paolo VI ai brigatisti nel rapimento Moro, figuriamoci se i rapitori fossero stati musulmani! Personalmente credo che quegli appelli il Papa li fece per generosità. 

A proposito della pista del terrorismo internazionale, lei ha fatto una scoperta importante che ne testimonia l’inconsistenza. Può dircela?
Sono riuscito a parlare con Günter Bohnsack , ex colonnello della X Divisione della HVA della Stasi, il servizio segreto della Germania dell’Est, il quale mi ha confessato che i comunicati firmati Fronte Turkesh li scrivevano loro in una villa di Berlino est, mangiando maiale arrosto, perché avevano avuto il compito da servizi di alleati del blocco sovietico di contrastare la pista bulgara che stava prendendo quota e che serviva soltanto per sputtanare l’Unione Sovietica. Hanno così pensato di inserirsi anche loro nella vicenda Orlandi, inventandosi questi comunicati che si divertivano a scrivere in un italiano sconnesso e che firmarono “Fronte Turkesh” perché così si chiamava il colonnello capo di un gruppo nazionalista turco. Del resto, la Stasi aveva già usato la sigla Turkesh per screditare l’esponente della Csu Franz Josef Strauß del quale disponevano la firma in originale, attribuendogli di aver saputo in anticipo dell’attentato a Wojtyla, come ammise Bohnsack interrogato per rogatoria internazionale.

Scartando la pista del terrorismo internazionale e quella della malavita romana, lei ha sempre ritenuto che non si potesse scartare a priori di indagare la cosiddetta pista amical-parentale facendo l’esempio dell’omicidio di Stefania Bini. Cosa accadde a questa ragazza diciassettenne?
Un anno dopo la scomparsa di Emanuela, nel 1984, Stefania aspettava l’autobus a piazza Cavour per andare a scuola. Passò suo zio, Mario Squillaro, e le diede un passaggio col furgoncino ma anziché a scuola la portò a casa sua, vicino alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Qui la uccise e con un martello pneumatico scavò una fossa nel suo seminterrato, seppellì il cadavere della nipote che poi coprì con il cemento e ci mise sopra il letto del figlio. Non soddisfatto, Squillaro pensò pure di inscenare un finto sequestro per mano dei turchi con richieste di riscatto a rate ai genitori della ragazza. Questi accettarono ma all’appuntamento per il pagamento in via Veneto si presentarono con la polizia che arrestò Squillaro e interrogandolo, riuscì a fargli confessare l’omicidio della nipote. Se lui non avesse confessato il delitto, la fine di Stefania sarebbe probabilmente ancora ignota. Pensi che il cugino dormì, ignaro, sul letto poggiato sopra il cadavere per dieci mesi.  Questo caso è stato risolto solo perché lo zio ha ceduto.

Lei che idea si è fatto di questa vicenda che segue con grande caparbietà da tanti anni?
Come mi disse l’avvocato Egidio nei nastri che ho consegnato al procuratore Giancarlo Capaldo, abbiamo a che fare con una scomparsa, non con un sequestro. Egidio mi disse che la verità su questa vicenda è molto più banale, ma non meno amara. Aggiungo quanto mi confidò Gerunda e che riporto nel frontespizio del mio ultimo libro:  «Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato (...). Certo, non ci sentivamo di esternarlo perché sarebbe stato crudele nei confronti della famiglia. Tale convinzione è tuttora confermata dai fatti successivi».



40 ANNI DOPO

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