Carriera alias, la scuola che diseduca
Continua l’assalto dei gruppi Lgbt alle scuole. Sebbene ancora relativamente esiguo, cresce il numero di istituti che attivano la «carriera alias» per coloro che non si identificano con il proprio sesso biologico e chiedono di essere chiamati con un nome diverso. Ma si tratta di un abuso giuridico, contrario al bene della persona e alla missione della scuola.
È uno dei segni più evidenti della colonizzazione ideologica e della mancanza di senso che oggi attanagliano la scuola. Parliamo della «carriera alias», procedura già nota ai lettori della Bussola. In breve, si dà la possibilità agli studenti che non si identificano con il proprio sesso biologico di scegliere un nome diverso da quello registrato all’anagrafe - così “Paolo” potrà diventare, per esempio, “Alice” e viceversa - e che sarà usato nei documenti ad uso interno della scuola, come il libretto per le assenze e il registro elettronico. Gli istituti che introducono la carriera alias, solitamente, la prevedono anche per il personale scolastico. Ma essa non ha alcun valore dal punto di vista legale, anzi, è un vero e proprio abuso giuridico.
Anche se si ricorre all’espediente di dire che la carriera alias è «un’identità provvisoria», le scuole e le università che la introducono agiscono comunque in violazione dei principi del nostro ordinamento, che ovviamente non prevede la coesistenza di due identità e stabilisce - all’articolo 117 della Costituzione - che l’anagrafe è materia di esclusiva competenza dello Stato, quindi fuori dai campi di intervento propri dell’autonomia scolastica. A ulteriore conferma dell’abuso normativo, la carriera alias scavalca l’iter stabilito dalla legge 164/1982 e dalle sentenze che hanno ampliato la portata della stessa legge riguardo alla possibilità di rettificare il sesso registrato all’anagrafe, alla luce del fatto che questa «rettifica» deve essere autorizzata dal tribunale. Ma i «nuovi diritti» funzionano così: se non c’è una legge che li introduce, ci pensa qualche giudice creativo; e se non si trova nemmeno il giudice, li si impone comunque in qualche modo - attraverso dirigenti scolastici, amministratori (vedi, da ultimo, il «registro trans» a Milano), ecc. - facendoli diventare prassi e sapendo che non si verrà sanzionati, perché il contesto storico-culturale è favorevole. È la stessa logica del Ddl Zan, che viene bocciato dal Parlamento ma poi viene fatto passare, pezzo per pezzo, per altre vie.
La carriera alias sta appunto seguendo quest’ultima strada, diffondendosi grazie all’attivismo e all’influenza delle organizzazioni Lgbt, in sprezzo non solo del buonsenso ma anche dello stato di diritto. La procedura è diffusa nel nostro Paese a macchia di leopardo: di tanto in tanto emerge la notizia di qualche liceo che l’ha introdotta: a dicembre 2021 si parlava di una trentina di scuole superiori, anche se non risulta una mappatura precisa del fenomeno e, nel frattempo, si è aggiunto qualche altro istituto. Riguardo al mondo universitario, stando ai dati di un collettivo trans (aggiornati a giugno 2018), sarebbero 32 su 68 gli atenei pubblici che prevedono la carriera alias.
Se si vanno a spulciare le pagine online e i “regolamenti” approntati da scuole e università per gestire la carriera alias si può notare che essi, a parte qualche differenza (formale o applicativa), usano parole e intere frasi praticamente in fotocopia, a partire dalle finalità sottese all’introduzione della carriera alias, che è prevista «al fine di garantire - leggiamo in uno dei suddetti “regolamenti” - alle studentesse e agli studenti in transizione di genere […] la possibilità di vivere in un ambiente di studio sereno, attento alla tutela della privacy e della dignità dell’individuo, idoneo a favorire i rapporti interpersonali affinché siano improntati alla correttezza ed al reciproco rispetto delle libertà e dell’inviolabilità della persona».
Colpisce che si parli di inviolabilità della persona. Eppure, se le parole hanno ancora un senso, il rifiuto del proprio corpo, e in particolare dei propri caratteri sessuali, equivale all’esatto opposto dell’inviolabilità della persona (che è unione di un corpo e un’anima immortale), essendo in realtà la sua disintegrazione e una mortificazione della libertà autentica, che è legata al vero e al bene. Lo dice il dato oggettivo. Lo confermano le sofferenze e le testimonianze delle persone pentite di aver iniziato un «percorso di transizione» (vedi per esempio qui e qui).
Non è infatti il corpo che deve adeguarsi - ed essere devastato - secondo quel che pensa in un dato momento la mente, ma è la mente che deve prendere atto e accettare l’identità sessuale oggettiva (biologica) dell’intero corpo. Il fatto che in un’istituzione come la scuola, che avrebbe il compito di insegnare ed educare alla verità, si assecondino le percezioni e i desideri soggettivi a scapito della realtà, dice molto del degrado culturale dei nostri giorni. Per quanto detto, l’eventuale certificazione medica/psicologica di una «disforia di genere» (certificazione che peraltro in qualche istituto non è nemmeno richiesta) non giustifica certo l’attivazione della carriera alias, poiché gli adulti sono chiamati ad aiutare i più giovani nel processo di maturazione e non ad assecondarne confusioni che rischiano di segnarli a vita sul piano fisico, psicologico e spirituale. Tanto più che nella stragrande maggioranza dei casi gli adolescenti superano la suddetta confusione - spesso indotta dal bombardamento ideologico cui sono sottoposti - crescendo. E non va dimenticata la violenza che si commette verso compagni di scuola, docenti, ecc., che vengono pressati/obbligati a usare nomi e pronomi opposti rispetto a quelli corretti.
Per cercare di arginare l’attacco più o meno sotterraneo che i gruppi Lgbt stanno portando alla scuola sul fronte della carriera alias, diverse associazioni hanno protestato giovedì 26 maggio davanti al Ministero dell’Istruzione, chiedendo al ministro Patrizio Bianchi di fermare questa assurdità e non rendersi complice di una deriva che fa male in primo luogo ai più giovani e alle loro famiglie.