"Barabba" ci mostra i pericoli del moralismo dilagante
L’opera "Barabba", del Premio Nobel svedese Pär Lagerkvist, mostra che la predilezione di Gesù non può essere cancellata né dal nostro rifiuto, né dal rinnegamento: la salvezza è nel legame con la Verità. Al contrario, la mentalità corrente dipinge la sincerità e la coerenza come due virtù che da sole possono però condurre al male.
Piccolo quadro, composto, raffinato, dal linguaggio poetico e denso di metafore, pubblicato nel 1950, l’anno prima del conseguimento del Premio Nobel da parte dell’autore svedese Pär Lagerkvist (1891-1974), l’opera Barabba è condotta per scene drammaturgiche, scevre però di dialoghi e scarne nella trama. Barabba è testo dotato di una notevole drammaticità, non tanto per un rapido susseguirsi di azioni, ma per la dinamicità della figura del protagonista, tutta protesa a conoscere Gesù, Colui che è stato crocifisso al posto suo, e per la bella pittura degli altri attori della scena ambientata a Gerusalemme.
Protagonista indiscusso è colui che dà il nome all’opera, quel Barabba, audace e scaltro, di cui parlano i Vangeli, presentato da papa Benedetto XVI come una sorta di figura messianica nel suo Gesù di Nazareth (in aramaico Bar-abbâ letteralmente significa «figlio del padre»). Lagerkvist lo rappresenta come una specie di condottiero che consigliava i compagni e architettava i piani delle loro imprese, «bizzarro, scompiacente», assai diverso dalle persone con cui si accompagnava, per cui essi non riuscivano mai a comprenderlo e lui rimaneva sempre un estraneo per loro.
L’opera si apre nei giorni immediatamente successivi alla crocefissione. Pur non credendo che Cristo potesse davvero resuscitare, Barabba si recò lo stesso al sepolcro. Solo lui si trovava lì, in attesa dell’evento, insieme alla Leporina, che, invece, credeva fermamente in Gesù e nella sua resurrezione. Quando aveva incontrato il Maestro, questa donna non gli aveva chiesto di essere guarita, perché desiderava solo vederlo e incontrarlo. Sarebbe diventata presto una vivace testimone del Signore.
Nel tempo, attraverso alcuni incontri significativi, Barabba cambiò, diventando sempre più strano per i conoscenti. Barabba destava l’impressione di essere lontano, «in qualche altro luogo». Forse, tutto ciò derivava da quel che gli era successo laggiù, a Gerusalemme, quando era stato così vicino alla crocifissione. Era quasi come se davvero fosse stato in croce e fosse poi tornato tra i vivi.Pieno di domande, Barabba scoprì dalla Leporina che il messaggio di Cristo era «amatevi l’un l’altro».
Senza cercarli deliberatamente, Barabba s’imbatteva spesso nei discepoli di Gesù, s’intratteneva a parlare con loro, per sapere qualcosa di più sul maestro e sulla sua dottrina. Barabba era colpito dal fatto che i discepoli credessero fermamente nella resurrezione del Signore. Non tutti i discepoli si fidavano, però, di Barabba. Se un tempo non gli era, però, mai importato («la gente aveva sempre dimostrato che non gli voleva bene e che non desiderava d’avere a che fare con lui»), ora, invece, ne era seriamente dispiaciuto.
Il Barabba solitario nell’animo si sentiva affascinato da quel gruppo di discepoli che erano uniti dalla fede comune, spezzavano il pane «come in una sola grande famiglia». Col passare dei giorni Barabba iniziò a cercarli per intendere meglio quella loro strana fede. Voleva capire, ma non riusciva. Ripensava a quell’uomo che, come dicevano gli apostoli, era morto per tutti. Barabba non sapeva se fosse morto davvero per tutti, capiva che senz’altro era morto per lui: era andato in croce al posto suo. La dottrina dell’amore era diventata per Barabba un’esperienza reale: lui era stato amato dal maestro che aveva dato la sua vita perché lui potesse vivere.
Tanti fatti provocarono Barabba: la Leporina venne lapidata in quanto discepola di Gesù: perché Lui non l’aveva salvata mentre la lapidavano? Perché i miracoli non accadevano sempre? Per che cosa era venuto allora il Signore?
Barabba finì in miniera, dove incontrò lo schiavo Sahak, che portava impresso il nome del Messia sulla piastra che aveva sul petto: lì, Barabba si trovò a testimoniare della resurrezione del maestro e desiderò anche lui portarne impresso il nome per indicare la sua appartenenza. Sahak testimoniava ovunque che «il suo dio era dappertutto, anche nel buio. Si poteva invocarlo dove si voleva e sentire la sua presenza. Sì, anche nel proprio petto lo si poteva sentire e questa era la più soave di tutte le cose. […] Era il dio di tutti gli oppressi e che doveva venire a liberare tutti gli schiavi dalle loro catene e a redimerli».
Sahak parlava il più sovente possibile della redenzione di tutti gli uomini. Ma Barabba ad un certo punto, incomprensibilmente, smise di pregare. Quando venne portato dinanzi al procuratore romano, dichiarò di non credere a quel dio in cui credeva Sahak. Allora, il romano gli chiese perché portasse impresso il nome Christòs Jesus sulla sua piastra. Barabba rispose semplicemente: «Perché desideravo di credere». Sahak, invece, non sconfessò la sua fede, perché poteva perdere la vita, ma non il suo Signore. Venne così crocifisso, mentre Barabba una volta ancora assisteva ad una crocifissione.
Negli anni successivi Barabba finì a Roma al seguito del procuratore che aveva terminato il suo compito nelle terre d’Oriente. Andò alla ricerca dei cristiani nelle catacombe. Non li trovò, ma, quando scoppiò l’incendio di Roma e vennero accusati i cristiani, credette di aggregarsi a loro contribuendo a propagare le fiamme. Pensava che finalmente fosse arrivato il Regno di Cristo a distruggere questo mondo. Aveva di nuovo frainteso il messaggio di Gesù, che è amore. Finì in carcere con i cristiani condannati a morte per l’incendio e si proclamò uno di loro. Ma i cristiani non lo conoscevano. Era una volta ancora solo, come lo era stato tutta la vita, finché Pietro non riconobbe in lui quel Barabba che era stato liberato al posto del maestro.
Barabba venne crocifisso anche lui, ma quando sentì avvicinarsi la morte, della quale aveva tanta paura, disse: «A te raccomando l’anima mia». Barabba era stato scelto. La predilezione di Gesù per lui non poteva essere cancellata in alcun modo. Era un segno indelebile, un cambiamento stesso della sua persona che da bruto era divenuta pienamente uomo, anche se non voleva riconoscerlo.
La moralità non risiede quindi in uno sforzo di coerenza, ma nella memoria, nell’amore e nell’affetto per il vero incontrato. Si può tradire mille volte (e ciò non è certo motivo di vanto!), ma si può ripartire dicendo nuovamente «sì, ti voglio bene», come Pietro dopo aver rinnegato Gesù per tre volte.
Pensiamo che misura diversa rispetto alla mentalità corrente che pone nella sincerità e nella coerenza le due virtù principali nel rapporto. La coerenza è, infatti, un disvalore in un uomo che non ha ancora incontrato la verità: se stesse camminando verso un precipizio, la coerenza lo porterebbe a cadere nel vuoto. Perciò, sincerità e coerenza, spesso trattate come virtù assolute, sono in realtà relative, cioè virtù solo se legate a ciò che davvero vale, ovvero alla verità.