Bambini e animali, perché il mondo non capisce il Papa
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Grande clamore mediatico per l'aneddoto raccontato da papa Francesco con cui condanna l'equiparazione tra bambini e animali domestici. È proprio questo il sintomo di una cultura triste, egoista e non più generativa, in cui la Chiesa appare come un corpo estraneo.
A margine dell'intervento di papa Francesco agli “Stati generali della natalità”, qualche giorno fa, è montato un grande clamore mediatico e polemico sull'episodio, da lui raccontato, del rimprovero rivolto alla fedele che gli chiedeva di benedire il suo cane chiamandolo “il mio bambino”. Il risalto ottenuto da questo passo del discorso del pontefice, funzionale a un ragionamento molto più ampio sulla necessità di tornare a una cultura che promuova la vita e la famiglia come aspetti naturali della società, è però molto sintomatico, perché evidentemente ha toccato un nervo scoperto nella nostra cultura diffusa, come praticamente ogni volta che ci si riferisce ai rapporti tra esseri umani e animali non aderendo perfettamente alla retorica “politicamente corretta” intrisa di sentimentalismo nei confronti di questi ultimi.
La frase del Papa ha attirato nei mezzi d'informazione e sui social innumerevoli critiche e commenti indispettiti, fondati sulla convinzione che essa esprimesse disprezzo nei confronti degli animali “d'affezione”, considerandoli privi di valore e non degni di essere benedetti. Ma, come è evidente a chiunque abbia ascoltato o letto l'intervento, Francesco non intendeva assolutamente dire nulla del genere.
D'altra parte, non avrebbe mai potuto, perché la Chiesa nella sua millenaria storia ha una lunga, indiscussa tradizione di amore per gli animali, di una loro non incidentale ma costante associazione al divino, e in particolare alla figura di Cristo, e, più specificamente, di benedizioni degli animali, legate ad aspetti del suo culto e alla venerazione per molti santi. Sostenere, da parte di un pontefice, che gli animali non sono degni di essere benedetti sarebbe stato assurdo e contraddittorio. E infatti papa Bergoglio non ha detto, ovviamente, questo.
Il suo aspro rimprovero alla fedele in questione è stato da lui raccontato invece per sottolineare quanto sia sbagliato e inammissibile, da un punto di vista cristiano, l'equiparazione tra un animale domestico ed un bambino, l'annullamento di ogni differenza di natura e valore tra la creatura animale della quale si è responsabili e alla quale si può essere certamente legati da un affetto profondo, e un figlio; e, addirittura, la sempre crescente tendenza, nelle nostre società, a rinunciare tout court alla maternità e alla paternità sostituendola con la convivenza con animali domestici, illudendosi e pretendendo che sia la stessa cosa, e che una o due persone con cani e/o gatti si possano considerare una “famiglia”.
Un surrogato che ad avviso del pontefice rappresenta un sintomo e una componente importante della “tristezza”, dell'inaridimento, dell'egoismo connessi inestricabilmente a società non più generative. Tristezza alla quale occorre urgentemente contrapporre una speranza non astratta, ma fondata su “scelte concrete”, tra cui quella di costituire famiglie solide e feconde, in grado di far guardare con gioia al futuro.
L'allarme per la percezione deformata di amore e famiglia veicolata dalla sostituzione psicologica degli animali ai figli non è un motivo nuovo negli interventi pubblici di papa Francesco. Nel gennaio del 2022, tra l'altro, aveva sottolineato con preoccupazione come molti preferiscano avere cani e gatti invece dei figli, mentre i due tipi di legame non sono paragonabili, perché “avere dei bambini è la pienezza nella vita di una persona”. E nell'agosto dello stesso anno aveva definito quella preferenza come la ricerca di un affetto “senza problemi”.
Ogni volta che il pontefice ribadisce questa idea ciò suscita regolarmente scandalo. Ma proprio le reazioni negative, e la loro provenienza, mostrano chiaramente come, nella forma ruvida e senza troppi convenevoli che egli tende a usare nelle sue allocuzioni, Bergoglio colga un nucleo centrale della cultura della “tristezza”, cioè sostanzialmente nella tendenza autolesionistica e decadente, da lui individuata nelle società occidentali.
Si tratta di un antiumanesimo radicale ormai saldamente radicato nella visione del mondo non più soltanto delle élites, ma di una parte consistente delle masse nelle società del benessere, dei consumi, dei “diritti” e delle libertà apparentemente illimitate.
Un antiumanesimo che appare come un'idra a due teste. Da un lato, una declinazione fanatica dell'ambientalismo, coniugata alla degenerazione del femminismo e dell'ideologia di tutela delle minoranze sessuali, che condanna apertamente la generazione di figli in famiglie “tradizionali” (o per meglio dire autentiche), o la generazione di figli tout court, come una scelta pericolosa per l'equilibrio dell'”ecosistema” o funzionale al mantenimento delle donne in una posizione subordinata. Dall'altro, l'animalismo, come ideologia che presuppone l'equiparazione degli animali agli esseri umani, e viceversa la riduzione degli esseri umani a semplici animali; la negazione radicale dell'antropocentrismo, inscindibile invece dall'umanesimo occidentale; l'attribuzione agli animali di fantomatici “diritti”; la stigmatizzazione dell'alimentazione a base di carne e dell'uso degli animali stessi.
Le classi dirigenti dell'Occidente secolarizzato e scristianizzato, e le masse inconsapevoli che le seguono, adottano largamente come religioni sostitutive da un lato quella dell'”ecosistema”, del clima, di un universo de-umanizzato; dall'altro la venerazione panteista, idolatrica, indistinta per le forme di vita non umane, con la loro indebita elevazione a “persone”. La Chiesa cattolica, che attraverso il suo capo si “ostina” a preservare l'antropocentrismo alla base del messaggio di Cristo come della razionalità ereditata da millenni di storia europea, nell'”inverno” di una civiltà alienata e ripiegata mestamente su se stessa, quando non intenta attivamente a distruggersi, appare come un corpo estraneo. Come la “straniera” di cui parlava profeticamente Thomas Eliot 90 anni fa, nei Cori da “La Rocca”.