Badinelli, il carabiniere che diede la vita per gli altri
Oggi sono 101 anni dalla nascita di Albino Badinelli, carabiniere ucciso a 24 anni dopo essersi consegnato ai nazifascisti per salvare una ventina di ostaggi. Davanti al plotone di esecuzione, come Gesù in croce, disse: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Un perdono che nasceva da una fede nutrita, in famiglia, fin dall’infanzia. E la Chiesa guarda con crescente interesse alla sua figura.
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
C’è la famiglia, numerosa, che nutre quella fede nella Provvidenza propria degli umili. C’è l’amore per le radici e per il prossimo, che giunge fino al sacrificio totale di sé. C’è il perdono cristiano dei propri carnefici, vissuto con lo sguardo ai beni eterni. È lungo queste direttrici che si svolse la vita terrena di Albino Badinelli (6 marzo 1920 - 2 settembre 1944), carabiniere tornato alla casa del Padre a 24 anni, in piena guerra civile italiana, e di cui oggi ricorre il 101° anniversario della nascita.
Ottavo dei 14 figli di Caterina e Vittorio, contadini, Albino nasce ad Allegrezze, frazione del paesino ligure di Santo Stefano d’Aveto. Fin da piccolo, quando non è impegnato con la scuola, aiuta la famiglia nei campi. La sera, per genitori e figli, è consueta la recita del Rosario attorno al focolare. Albino porterà sempre con sé la devozione per la Madonna coltivata tra le mura domestiche ed espressa anche con il custodire, nelle sue tasche, la coroncina.
Insieme alla fede, Albino manifesta fin dalla fanciullezza la vocazione a diventare carabiniere. Arruolato l’1 marzo 1940 (giorno dell’omonimo santo), ottiene la promozione a carabiniere ausiliario il successivo 10 giugno, lo stesso giorno in cui Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia. Pochi mesi più tardi viene mandato in Jugoslavia, con compiti di vigilanza e polizia militare. Al fronte continua ad esercitare alcune delle sue passioni, come il disegno e la scrittura. In una delle lettere di quel periodo, il 7 giugno 1942, scrive: «Cara mamma, non posso descriverti tutta la poesia che mi suscitò nel cuore l’immagine di quella Madonnina alla quale vengono rivolte preghiere che non potranno non essere esaudite, essendo rivolte con tanta devozione dal cuore di una madre, che con ansia implora la protezione dei figli lontani... Siate sempre tranquilli, perché ovunque Ella stenderà il Suo manto sopra di noi, se ne conserveremo la devozione». Il 21 agosto successivo, in un’altra lettera, raccomanda ai familiari: «Rassegnatevi sempre al volere di Dio».
Nel biennio ’43-’44 la famiglia Badinelli è segnata prima dall’angoscia di non avere più notizie di uno dei fratelli di Albino, Marino, impegnato a combattere sul fronte russo, e poi dal dolore per la certezza della sua morte. Sarà san Pio da Pietrelcina - una delle persone a cui mamma Caterina aveva scritto - a far sapere alla famiglia di non cercare più Marino perché giaceva sepolto in una fossa comune in Russia. Circostanza che verrà confermata dal Ministero della Difesa negli anni Ottanta.
Nel ’43, Albino viene richiamato in Italia per prestare servizio a Santa Maria del Taro, piccola località in provincia di Parma. Il giovane carabiniere stringe amicizie profonde e non manca, nel suo piccolo, di evangelizzare. Testimonierà il collega Fabio Morelli, conosciuto durante l’esperienza lavorativa nel parmense: «Albino era una persona speciale, dotata di grande umanità e profonda religiosità. Andava ogni giorno a Messa nella chiesa parrocchiale e spesso ci invitava tutti a pregare il Rosario con lui. Era un grande esempio per noi che gli eravamo legatissimi […]».
LA GUERRA CIVILE
Dopo il Proclama Badoglio dell’8 settembre, che annuncia l’armistizio con gli Alleati, l’Italia si trova spaccata in due, tra nazifascisti e forze della Resistenza. Anche Albino sperimenta presto la durezza di quella guerra nella guerra, dove pure vecchi amici e familiari possono trovarsi su fronti opposti. Alcuni partigiani, siamo già nel ’44, attaccano la caserma di Santa Maria del Taro, devastandola con una bomba. Seguendo gli ordini di un superiore, Albino fa ritorno a casa, ma prima si libera del moschetto perché sconvolto dall’idea di potersene servire per uccidere dei fratelli.
Anche la Val d’Aveto non rimane estranea agli scontri tra “repubblichini” di Salò e partigiani. È l’agosto del ’44 quando la Divisione Monterosa, nazifascista, entra in quei territori, incendiando le case in diversi borghi. Al suo comando c’è il maggiore Girolamo Cadelo, «il quale aveva come obiettivi quelli di stanare i ribelli che infestavano quelle campagne, neutralizzare l’attività partigiana e rastrellare disertori e renitenti alla leva (in osservanza del decreto legislativo del Duce 18 febbraio 1944, n. 30 “Pena capitale a carico di disertori o renitenti alla leva”)» [cfr. Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri, Anno II, n. 4, p. 93].
Nel giorno dell’ingresso a Santo Stefano d’Aveto, il 27 agosto, la Monterosa subisce un agguato partigiano, patendo alcune vittime. La frazione di Allegrezze, due giorni più tardi, viene incendiata dalle bande fasciste. Arriva quindi il 2 settembre. Il maggiore Cadelo e i suoi uomini hanno con sé una ventina di ostaggi. Dei manifesti, sparsi in tutto il territorio cittadino, invitano i giovani “sbandati” a presentarsi alla locale Casa del Fascio. In caso contrario, i prigionieri saranno uccisi e le case di Santo Stefano date alle fiamme. Pochi si consegnano e tra questi - pur non partecipando attivamente alla Resistenza - c’è Albino, che ai familiari aveva detto: «Devo presentarmi prima che venga ucciso qualcuno, perché non avrei più pace. Io devo essere il primo!».
Alla Casa del Fascio, Badinelli spiega a Cadelo di appartenere all’Arma e di volere la pace, ma il maggiore gli urla di aver mancato al dovere di catturare i disertori ed emette la sua ‘sentenza’: «Plotone di esecuzione!». Albino chiede a quel punto di potersi confessare, ma gli viene negato. Un giovane ha però la pietà di andare a chiamare monsignor Giuseppe Monteverde, un anziano sacerdote del posto, che accompagna Albino verso il luogo dell’esecuzione, il cimitero, e ne raccoglie le ultime confidenze. Tra queste, c’è anche il perdono per coloro che di lì a breve saranno i suoi uccisori. Il buon sacerdote lo benedice, gli consegna un crocifisso e lo raccomanda alla Madonna di Guadalupe, molto venerata a Santo Stefano.
Giunti al cimitero, Albino viene posto con le spalle al muro. È in quegli istanti che, dopo aver baciato con grande devozione il crocifisso, dice come Gesù in croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Qualcuno nel plotone si rifiuta di sparare. Ma la sua sorte è segnata. Viene raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, due al cuore e uno alla testa. Così, il 2 settembre 1944, il ventiquattrenne Albino torna al Creatore (sul luogo della sua morte, oggi si trova una lapide, la cui scritta finisce così: «O tu che passi / chinati al suo ricordo / e prega a lui ed al mondo / pace»). A piangerlo, tra i tanti familiari e amici, la fidanzata Albina, che tempo dopo chiederà di essere sepolta insieme alle lettere che lui le scriveva.
Il suo cadavere, ancora sanguinante, viene lasciato per un po’ davanti al cimitero e poi portato nel coro della vecchia chiesa parrocchiale, con l’ordine del maggiore Cadelo di non spostarlo da lì, perché serva da monito. Ma nella notte il corpo esanime di Albino viene trafugato da alcuni compaesani, guidati da monsignor Casimiro Todeschini, per dargli degna sepoltura.
Il suo sacrificio contribuisce comunque a placare l’ira di Cadelo, che rinuncia al proposito di uccidere gli ostaggi e incendiare Santo Stefano. Lo stesso maggiore finirà vittima di un’imboscata alcuni giorni più tardi, il 27 settembre, nei pressi del Passo della Forcella. Ma chi comunica il fatto a mamma Caterina, pensando di portarle una buona notizia, si sente rispondere da lei: «Non voglio ritirare il perdono che mio figlio ha dato prima di morire!». E qualche tempo dopo, mentre sta recitando il Rosario in un angolo della sua cucina, interpellata da un cappellano militare giunto con altri a raccogliere informazioni sulla morte di Albino, la donna confida: «Prego per coloro che hanno ucciso mio figlio».
ESEMPIO PER LA CHIESA E IL MONDO
Negli anni la testimonianza di vita di Albino ha ricevuto diversi riconoscimenti dalle autorità secolari, culminati nella Medaglia d’oro al merito civile concessa nel 2017 attraverso un Decreto presidenziale di Sergio Mattarella, che due anni prima aveva conosciuto di persona l’ultima sorella vivente di Albino, Agnese. La donna, oggi novantaseienne, seppe dell’uccisione del fratello dalla voce di don Primo Moglia, incontrato per strada poco dopo gli spari fatali: «Gli chiedemmo cosa fosse accaduto. E lui rispose: “Albino è volato in Paradiso”» (cfr. Famiglia Cristiana, 3 settembre 2017, n. 36).
Naturalmente, la Chiesa guarda con grande attenzione alla figura di Badinelli. Almeno quattro Papi - Pio XII, Paolo VI, Benedetto XVI, Francesco - hanno conosciuto ed espresso in vario modo la loro gratitudine per l’esempio di Badinelli. Ratzinger ha parlato del suo sacrificio come «testimonianza di amore e di pace che dona forza e stimolo ai giovani del nostro tempo». E nel Sinodo dei Giovani del 2018, voluto da Bergoglio, Albino è stato incluso tra i testimoni dell’amore di Cristo da far conoscere alle nuove generazioni.
Per saperne di più:
L’amore più grande, Tommaso Mazza