Amanda Knox, se è innocente resti in America
Amanda Knox dovrebbe ritornare in Italia? Se sa, in sua coscienza, di essere innocente, non ne vale affatto la pena. Rischierebbe di essere condannata ingiustamente e di divenire complice di un errore giudiziario.
Il 6 novembre si è riaperto il processo per l’omicidio di Meredith Kercher. Amanda Knox ha fatto sapere che molto probabilmente non tornerà in Italia per assistere al processo e per scontare un’eventuale condanna. Da qui una domanda: Amanda fa bene dal punto di vista morale a rimanere negli States? L’interrogativo si potrebbe estendere ad un caso ipotetico analogo: Tizio, accusato di omicidio e residente in Italia, potrebbe lecitamente decidere di scappare all'estero dove non c'è estradizione per sottrarsi al processo e ad una possibile incarcerazione?
La risposta in entrambi i casi è positiva ma solo a condizione che gli imputati siano realmente innocenti. Infatti se Amanda è innocente perché sottoporsi ad un giudizio che potrebbe comminare a lei una sentenza di condanna che sarebbe quindi ingiusta? I diretti interessati, posto che fossero capaci di intendere e volere nel momento in cui si è verificato il reato, sanno se sono colpevoli o no: loro, per ciò che li concerne, sono custodi della verità fattuale a cui mira imperfettamente il processo che deve riprodurre tale verità in sede giudiziale (verità processuale). Sul loro status di innocenza o colpevolezza ne sanno più dei giudici. Ovvio che il giudizio dei magistrati potrebbe essere erroneo e quindi perché assecondare tale giudizio? Sarebbe addirittura una complicità con l’errore e gli erranti. Per le stesse ragioni l'innocente che per errore è finito in carcere è legittimato sotto il profilo morale ad evadere: perché scontare una condanna ingiusta? Prima viene la realtà dei fatti e poi le sentenze che a questi si devono conformare.
Quindi non solo l'innocente può sottrarsi al processo ma a volte deve. Ad esempio, se ha responsabilità morali verso terzi: madre e padre con i figli, coniugi tra loro, professionista impegnato in ruoli sociali di rilievo ecc…
Naturalmente la liceità di sottrarsi al giudizio non comporta il divieto di sottoporsi al processo. Un innocente potrebbe decidere di farsi processare perché ha tutto l'interesse che la sua conoscenza dei fatti diventi di dominio pubblico attraverso l'accertamento giudiziale o che la sua fama sia tutelata (“se partecipa al processo – potrebbe concludere qualcuno – vuol dire che è proprio innocente. Altrimenti, chi glielo fa fare?”). Sottoporsi a giudizio potrebbe essere poi la testimonianza pubblica che davvero è innocente e non ha nulla da temere, oppure potrebbe significare un ossequio al valore delle istituzioni dello Stato. Anche Gesù pagò un tributo ingiusto per non ingenerare scandalo: a volte si tollera un male per un bene maggiore.
Detto questo però bisogna vedere se il gioco vale la candela. Infatti in questo caso abbiamo una condotta (partecipare ad un processo) che può ingenerare effetti negativi (carcerazione ingiusta). Per verificare se tale condotta sia la scelta migliore da fare occorre vedere se sussistono due requisiti. Da una parte ci sono i beni in gioco: se ho una febbre lieve, non mi avventuro su una strada di montagna assai pericolosa in inverno, sotto una nevicata imponente, a bordo di un'auto in pessime condizioni a rischio della vita per raggiungere l’ospedale. Il bene salute vale meno che il bene vita: tenterò di farmi passare la febbre con una soluzione meno pericolosa per la mia vita. Nel caso di Amanda vediamo quali sono i beni in gioco: perdita della libertà, rottura dei legami affettivi e di sangue, quasi impossibilità di continuare gli studi intrapresi, elevato stress psicologico, contro, ad esempio, tutela del proprio buon nome, riabilitazione pubblica dell'imputato. E già qui comprendiamo che il rischio di 20 anni di prigione non valgono un "buon nome" o l'avvaloramento del credito che dobbiamo riconoscere alle istituzioni. La libertà è bene che vale più di tutti questi beni. L’errore a volte può essere tollerato per un bene maggiore, così si diceva, e dunque di converso si deve concludere che se il bene ottenuto è di peso minore rispetto ai danni subiti è preferibile non tollerare il male.
Dall'altra si deve tenere in conto anche il grado di probabilità che l'evento dannoso si verifichi. Nell’esempio che abbiamo fatto prima della febbre: se fossimo in estate, in città, potrei anche decidere di recarmi in ospedale in auto. Il rischio di un incidente grave è remoto. Invece in montagna, d’inverno, con le strade ghiacciate il rischio è elevato. Nel caso Meredith: il rischio che Amanda sia dichiarata colpevole non è così remoto. Mettendo insieme questi due criteri si può concludere che il gioco non vale la candela e quindi è suggeribile non partecipare al processo.
Rimane però il fatto che, per la coscienza del soggetto, la propria onorabilità potrebbe avere un valore così alto da meritare il rischio di finire dentro seppur innocente. Quindi non partecipare al processo non può diventare un divieto assoluto di carattere morale – non è un male intrinseco - ma solo un consiglio prudenziale.
Spostiamoci ora dal piano del giudizio morale a quello sociologico. L’idea oggi prevalente sulla condotta che dovrebbe assumere Amanda è invece univoca: non può che far ritorno in Italia. Questa impostazione è impregnata da formalismo giuridico. Non importa tanto la verità fattuale, bensì quella giudiziale. Meglio in galera un’innocente perché così ha deciso un giudice, che un’innocente libera ma non rispettosa delle sentenze. L’assoluto morale è il diritto positivo e la sua applicazione formale (sentenza), non la verità. Era la posizione erronea di Socrate: questi, accusato ingiustamente, non tentò di fuggire ed accettò la condanna a morte perché, così si espresse per bocca di Platone, «è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla» errando in tal modo nel ritenere una sentenza sempre giusta se emanata dall’autorità legittima. Invece una sentenza è ingiusta non solo se è pronunciata da chi non ha il potere legittimo per giudicare, ma anche e soprattutto se condanna l’innocente. Invece si sente spesso dire che le sentenze devono essere rispettate senza se e senza ma. Vero, ma solo quando sono giuste, cioè conformi al vero (più o meno è lo stesso discorso per le leggi ingiuste ma con alcuni doverosi distinguo). In realtà questa è la stessa posizione che assume il nostro ordinamento giuridico permettendo più gradi di giudizio, conscio che la verità fattuale può far fatica a venire a galla.
Se dunque la sentenza è erronea, perde di autorità – e quindi si può anche non rispettare - perché lei per prima non ha rispettato il fine suo proprio: l’accertamento della verità fattuale e la relativa condanna, se c’è stato illecito, commisurata a questo.