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CONTINENTE NERO

Altro che Covid. In Africa la vera emergenza è Ebola

Del Covid in Africa, dove gli scenari apocalittici immaginati dall’Oms per fortuna non si sono avverati, ormai non si preoccupa più nessuno. In Africa centrale, semmai, si torna a tremare per un nemico ben più letale: Ebola. Dopo l'ultima epidemia in Congo, ora si registrano casi in Uganda.

Creato 29_09_2022
Vittime di Ebola in Uganda

Del Covid in Africa, dove gli scenari apocalittici immaginati dall’Oms per fortuna non si sono avverati, ormai non si preoccupa più nessuno. Avevano previsto oltre un miliardo di contagi e milioni di morti. Invece allo stato attuale il totale del contagi supera di poco i 12 milioni e i morti accertati sono 257mila. Il 27 settembre su quasi mezzo milione di nuovi casi registrati nel mondo, solo 1.554 risultavano in Africa.

Anche nel pieno della pandemia per la maggior parte degli africani le emergenze erano altre: gli attentati jihadisti, gli scontri tribali, gli attacchi e le razzie dei gruppi armati antigovernativi, le intemperie, persino, in Africa orientale, i devastanti sciami di miliardi di locuste e, su tutto, l’incubo di malattie ben più diffuse e letali. Una donna intervistata nel maggio del 2021 dalla Bbc a Goma, una città della Repubblica democratica del Congo, alla domanda se era in ansia per la pandemia aveva risposto: “non ho mai visto nessuno morire di Covid e non mi fa paura, al contrario di Ebola”. Lo diceva a ragion veduta perché la sua città è stata colpita da diverse epidemie di Ebola, una malattia causata da un filovirus che ha un tasso di letalità di circa il 50%, con variazioni tra il 25% e il 90%.

Per l’Oms il Covid era la minaccia su cui concentrare le risorse. Nel frattempo proprio in Congo la lotta era contro epidemie di malaria, morbillo, colera e, per ben sei volte, Ebola. L’ultima epidemia, iniziata lo scorso agosto, è terminata il  27 settembre. Intanto, sette giorni prima, il 20 settembre, una nuova epidemia è scoppiata nel vicino Uganda. Il governo del paese aveva già messo in stato di allerta i 21 distretti confinanti con il Congo temendo il diffondersi del virus. Inoltre aveva incominciato a vaccinare i suoi oltre 10mila soldati che in Congo combattono contro il gruppo armato jihadista Adf, originario dell’Uganda. Ma il 23 settembre l’Istituto ugandese di ricerca sui virus ha informato l’Oms che a provocare la malattia non era il ceppo di Ebola Zaire responsabile dei morti in Congo, ma un ceppo relativamente raro chiamato Sudan. Era una gran brutta notizia perché i vaccini da qualche anno in uso contro il ceppo Zaire, e dimostratisi decisivi per contenere i contagi e i decessi, non sono efficaci per il ceppo Sudan.

Tuttavia Matshidiso Moeti, direttore regionale per l’Africa dell’Oms, si è molto complimentato con l’Uganda per la rapidità con cui, grazie alla professionalità dei suoi ricercatori, il virus è stato individuato e si è detto fiducioso: “possiamo contare su questa tempestiva individuazione per fermare la diffusione dei contagi”. Le autorità sanitarie ugandesi a loro volta hanno ripetutamente assicurato i cittadini e la comunità internazionale di essere perfettamente in grado di contenere l’epidemia.

Ma il 22 settembre i casi individuati erano saliti a sette e il numero dei contagi continua a salire. Le squadre sanitarie cercano disperatamente di intercettare tutte le persone entrate in contatto con gli ammalati per metterle in isolamento e tentare di contenere la malattia. Se non altro, per il momento, non si registrano ancora casi confermati nella capitale Kampala.

I paesi confinanti sono in allerta. Il Tanzania ha istituito squadre di controllo ai posti di frontiera principali e agli aeroporti internazionali e ha ordinato il controllo di tutte le persone che entrano nel paese. Altrettanto sta facendo il Kenya che inoltre ha invitato la popolazione a usare estrema prudenza nel caso si rechi in Uganda e in Congo. In Somalia il ministero della sanità in collaborazione con quello dei trasporti e con altre agenzie sta organizzando misure per impedire che la malattia raggiunga il paese.

Il 27 settembre in Uganda sono stati registrati 36 casi e 23 morti in cinque diversi distretti. Quello stesso giorno sono entrati in sciopero gli specializzandi – 34 tra medici, farmacisti e infermieri – dell’ospedale regionale di Mubende dove sono ricoverate tutte le persone contagiate o sospettate di esserlo. Protestano perché sono costretti a lavorare senza le necessarie misure di sicurezza e chiedono di essere trasferiti altrove. “La maggior parte delle volte entriamo in contatto con i pazienti a mani nude” ha spiegato un medico. Già sei specializzandi sono stati esposti al virus. Si trovano in isolamento in attesa dell’esito dei test. Due manifestano segni della malattia.

Il presidente dell’Associazione medica ugandese, dottor Sam Oledo, ha subito espresso sostegno a tutto il personale sanitario dell’ospedale e ha accusato il governo di non assicurare condizioni di lavoro sicure a chi si occupa dell’epidemia di Ebola. “Il personale sanitario è demotivato e preoccupato” ha dichiarato in un comunicato elencando le misure di sicurezza indispensabili di cui invece chi assiste i malati di Ebola è sprovvisto. Ha detto inoltre che dovrebbe essere prevista una indennità di rischio. “Ma non sono state pagate neanche quelle per il personale sanitario che si occupava dei malati di Covid-19. Adesso è ancora peggio e tuttavia non ci sono fondi disponibili”. 

Il 23 settembre Medici senza frontiere ha annunciato che una loro equipe sta allestendo un centro di isolamento nell’ospedale di Mubende e che sta valutando la possibilità di aprirne uno in un’altra città. Se necessario, sarà l’Oms a intervenire come ha fatto in occasione di altre epidemie di Ebola. Nessun paese africano è mai stato lasciato da solo a fronteggiare una emergenza sanitaria. Personale medico e paramedico, strutture sanitarie e posti letto sono insufficienti anche in tempi normali, in Africa: l’Uganda ha 15 medici e 50 posti letto ogni 100mila abitanti. Intervengono a rimediare, per quanto possibile, oltre all’Oms, migliaia di organizzazioni non governative. Inoltre alla salute degli africani in situazioni ordinarie e di crisi provvedono le Chiese, i missionari, le associazioni di ispirazione cristiana diffusi su tutto il territorio africano: una presenza capillare, indispensabile, vitale.

Il paradosso è che,  mentre un consistente e continuo flusso di risorse e personale medico da altri continenti raggiunge l’Africa, ogni anno migliaia di medici e di infermieri africani, insoddisfatti delle condizioni di lavoro e dei bassi stipendi della sanità pubblica vanno a lavorare negli ospedali europei e del nord America. Altrettanti, ed è ancora più paradossale, se ne vanno perché non trovano lavoro in patria. Lo scorso luglio il Kenya, ad esempio, ha firmato un accordo che permette ai propri medici e infermieri disoccupati di lavorare in Gran Bretagna. Attualmente sono quasi 900 i kenyani impiegati nel servizio sanitario britannico. In Mozambico i dottori senza lavoro sono almeno 200. “Non ha senso che nel mio paese dei medici siano senza lavoro” commenta Gilberto Manhiça, presidente dell’Ordine dei medici. Il Mozambico ha solo nove medici ogni 100mila abitanti.