Ad Arquà Petrarca tra il sapore delle giuggiole
Petrarca trascorse gli ultimi anni della sua vita in un bel borgo sui Colli Euganei, Arquà, che nel 1868 è stato ribattezzato aggiungendovi il suo nome. Ancora oggi è possibile visitare la casa del poeta, meta di tanti letterati del passato e immersa in un bel paesaggio, con un frutto tipico della zona.
Il 19 luglio 1374 si spegneva Francesco Petrarca, il poeta che era stata incoronato con l’alloro poetico in Campidoglio a Roma l’8 aprile 1341, dopo essere stato interrogato dal dotto re di Napoli Roberto d’Angiò, che lo esaminò per tre giorni successivi.
Non aveva ancora compiuto quarant’anni e Petrarca era già il poeta più conosciuto d’Europa, ambito dalle corti e dai regnanti di tutto l’Occidente. Fin da subito anche la fortuna della sua opera fu incredibile, tanto che nel Cinquecento Pietro Bembo lo indicò come modello per la scrittura poetica nell’opera Le prose della volgar lingua e sorse addirittura il fenomeno del petrarchismo con l’imitazione della lingua poetica e dell’immagine di Laura come donna ideale.
Petrarca aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, dal 1370 in poi, in un bel borgo sui Colli Euganei, allietato da un clima mite e dalla compagnia dell’amata figlia Francesca e del genero Francesco. Sorto probabilmente su una linea difensiva che lo collegava a Monselice per fermare le incursioni barbariche, il borgo ebbe poi, a partire dal 985, un castello (abitato da Roberto Normanno, distrutto poi nel Trecento) e si sviluppò ai piedi del Monte Piccolo e del Monte Ventolon. Dopo la morte del Petrarca, il borgo rimase indissolubilmente legato alla figura della grande corona fiorentina, tanto che sorse una sorta di turismo letterario sulle sue tracce: tra i tanti letterati che nel corso dei secoli visitarono questi luoghi, ricordiamo Shelley, Byron, Foscolo, Carducci, D’Annunzio.
Solo dal 1868 (quindi, dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia avvenuta nel 1866) il comune venne ribattezzato Arquà Petrarca. Ancor oggi è possibile visitare la casa di Petrarca. Lasciata in eredità al genero Francesco di Brossano, venne in un primo momento venduta alla famiglia Giustinian. Non ripercorriamo qui i diversi passaggi di proprietà dell’abitazione. Ricordiamo solo che nel 1875 il cardinale Silvestri la donò al Comune di Padova. Restaurata, la casa ritornò alle condizioni e alla forma dell’epoca del Petrarca con l’eccezione di alcuni affreschi e di una loggetta cinquecenteschi. Le immagini rappresentate nel salone centrale sono dedicate alla canzone XXIII («Nel dolce tempo de la prima etade») e alla CCCXXIII («Standomi un giorno solo a la fenestra»). La stanza è chiamata anche stanza delle metamorfosi perché gli affreschi mostrano il poeta trasformato prima in pianta d’alloro, poi in cigno, in sasso, in fonte, in pietra, in cervo.
La camera da letto prende il nome di «stanza di Venere» per la presenza dell’immagine della divinità dipinta sopra il camino. Nella «stanza dell’Africa» sono, invece, rappresentati temi tratti dall’omonimo poema epico in latino in cui si raccontano le gesta di Scipione l’Africano. Nella «stanza delle visioni» sono rappresentate immagini collegate alla canzone «Standomi un giorno solo a la fenestra». Nel retro della casa si trovano il giardino e l’orto del poeta.
Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 Petrarca morì nello studiolo dove lavorava e conservava i suoi manoscritti. Come da lui richiesto, il suo corpo fu tumulato ad Arquà, prima nella Chiesa di Santa Maria Assunta fino al 1380, quando il genero fece spostare la salma nell’arca di marmo, collocata sul sagrato davanti alla chiesa. Sull’arca troviamo incise le parole che lo stesso Petrarca volle dettare: «Frigida Francisci lapis hic tegit ossa Petrarce; suscipe virgo parens animam; sate virgine parce. fessaq(ue) iam terris celi requiescat in arce» ossia «Questa pietra ricopre le fredde ossa di Francesco Petrarca, accogli, o Vergine Madre, l’anima sua, e tu, figlio della Vergine, perdona. Possa essa, stanca della terra, riposare nella rocca celeste».
Nel componimento Childe Harold's Pilgrimage il poeta inglese Byron, che si recò in visita ad Arquà nel 1817, scrive:
C’è una tomba ad Arquà; sollevate verso l’alto, su colonne, riposano/ le ossa dell’amante di Laura:/ qui accorrono / molti amici dei suoi ben intonati lamenti,/ come pellegrini che onorano il suo genio. Egli sorse / per innalzare una lingua, e per liberare una patria / dal giogo ottuso dei suoi nemici barbari:/ innaffiando l’albero che portava il nome della sua signora / con le sue melodiche lacrime egli si consegnò alla fama. // Le sue ceneri sono conservate ad Arquà, dove morì; / il villaggio montano dove i suoi ultimi giorni / discesero fino in fondo la valle degli anni; e questo è il loro vanto – / un legittimo orgoglio – che essi ne gioiscano / offrendo allo sguardo dello straniero di passaggio / la sua casa e il suo sepolcro; entrambi umili / ma venerabilmente semplici, tali da suscitare / un sentimento più conforme al suo canto / che se una piramide costituisse il suo monumentale santuario.
Nel corso dei secoli questo sepolcro, meta di tanti pellegrinaggi, fu violato più volte. Fu asportato un braccio nel 1630, una costola fu sottratta nel 1843. Ma lo stupore maggiore si ebbe quando gli studi del 2003 rivelarono che, mentre le ossa del corpo appartenevano a Petrarca, il cranio era di una donna.
Arquà Petrarca offre al visitatore tante altre attrattive. Gabriele d’Annunzio ambienta il romanzo Il fuoco a Venezia e nelle splendide ville del Brenta che diventano lo scenario della storia d’amore dei due personaggi fondamentali, Stelio Effrena e Foscarina, attraverso la quale si descrive in realtà la vera vicenda sentimentale dell’autore con l’attrice teatrale Eleonora Duse. Drammaturgo oltre che oratore, un giorno il protagonista invita l’amata a visitare Arquà Petrarca:
Guardate laggiù i Colli Euganei, Foscarina. […] Non li ho mai veduti così trasparenti… Un giorno vorrei andare con voi ad Arquà. I villaggi sono rosei laggiù come le conchiglie che si trovano nella terra a miriadi. Quando arriveremo, le prime gocce d’una pioggerella improvvisa toglieranno qualche petalo ai fiori dei peschi. Ci fermeremo sotto un arco del Palladio, per non bagnarci. Poi cercheremo la fontana del Petrarca, senza domandare a nessuno la via.
A quale fonte allude d’Annunzio? Ad una sorgente (nelle vicinanze della Chiesa di Santa Maria Assunta) che esisteva già quando il poeta trascorreva in quel borgo gli ultimi anni della sua vita e alla quale il poeta attingeva acqua. Sopra la fonte si trova un arco trionfale con l’incisione dei versi latini: «Fonti numen inest, hospes: venerare liquorem, unde bibens cecinit digna Petrarcha deis» ovvero «nella fonte c’è una divinità, o forestiero: venera quest’acqua, bevendo dalla quale il Petrarca poté cantare versi degni degli dei». Arquà Petrarca diviene così una nuova Elicona (ove si trovava la sorgente Ippocrene, sacra alle Muse).
Al visitatore che si rechi ad Arquà Petrarca rimane impresso anche il ricordo di un frutto che è tipicamente coltivato sui Colli Euganei e, in particolare, in questo borgo: la giuggiola. Nel Cinquecento i Gonzaga inventarono il brodo di giuggiole, un liquore molto dolce e dal sapore intenso. Dal liquore è nata l’espressione «andare in brodo di giuggiole» che significa «andare in solluchero, uscire quasi di sé dalla contentezza». Arquà ha eletto il frutto delle giuggiole come secondo emblema del proprio borgo, dopo la figura del grande poeta Petrarca.