Abusi sessuali, una crisi di fede
Dalla crisi di fede al garantismo “conciliare”, fino al ruolo del relativismo morale insinuatosi anche nella Chiesa, come ricordava Benedetto XVI. I temi del videoincontro della Bussola: Abusi sessuali, una crisi di fede.
Oggi, quando si parla di abusi sessuali nella Chiesa, un tema che rimane spesso sullo sfondo o che non è affatto affrontato è quello della crisi di fede. Eppure il tema è centrale, come ricordava Benedetto XVI nei famosi Appunti pubblicati l’11 aprile 2019, un mese e mezzo dopo l’incontro in Vaticano tra papa Francesco e i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo, in cui si era parlato di pedofilia nel clero. In quegli Appunti, di una lucidità straordinaria, si ritrova in sintesi la diagnosi del problema – inclusi gli effetti del clima sessantottino in alcuni ambienti ecclesiali – e la possibile giusta risposta da parte della Chiesa.
E proprio questi sono stati gli aspetti al centro del videoincontro della Bussola (martedì 18 luglio) moderato da Stefano Chiappalone e intitolato Abusi sessuali, una crisi di fede: ospite Luisella Scrosati, firma ben nota ai lettori di questo quotidiano.
Nell’incontro, il penultimo di un miniciclo di sei in coincidenza con la campagna di raccolta fondi estiva, si è sottolineato come l’eccesso di un garantismo unilaterale (a favore degli abusatori o presunti tali) abbia contribuito a minare, da qualche decennio, la credibilità della Chiesa. A ciò si lega una strana e fumosa idea di “conciliarità” (coincidente, in concreto, con lo spirito del mondo), che Benedetto XVI non mancò di denunciare nei suoi Appunti. Quando, specie dalla seconda metà degli anni Ottanta, la piaga degli abusi sessuali iniziò ad emergere, nella Chiesa si era fatta spazio un’errata concezione di diritto penale. «Ormai – ricostruiva Ratzinger – era considerato “conciliare” solo il così detto “garantismo”. Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto (…) che le condanne divennero quasi impossibili».
Serviva invece, ieri come oggi, appurare la verità degli abusi denunciati, all’interno di un processo penale. Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, concordò con Giovanni Paolo II di far rientrare gli abusi sessuali dei chierici verso i minori tra i delicta graviora contra fidem: la competenza su questi delitti più gravi passava così alla CDF (che sostituiva in questo ambito la Congregazione per il Clero, dove regnava eccessivo garantismo) e si evidenziava appunto il vulnus che essi rappresentano per il bene della fede. Tali delitti, pur commessi da un numero relativamente esiguo di chierici, sono infatti di scandalo per la fede dei piccoli, termine che «nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici», spiegava il grande teologo tedesco richiamando il Vangelo di Marco (Mc 9,42).
Il messaggio che Ratzinger-Benedetto XVI ci ha lasciato, come sintetizza la Scrosati, è che il garantismo, se non equilibrato, «diventa devastante, perché non tiene conto del bene proprio della fede, che viene scossa nelle vittime; viene scossa nella comunità dei fedeli; viene ulteriormente scossa quando all’abuso si aggiunge la legittimazione teologica. Non è casuale che Benedetto XVI [negli Appunti] abbia detto proprio questo: “È importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede”. E ha aggiunto: “Per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario un vero processo penale”», così da verificare le responsabilità.
Ma anziché seguire questa strada precisa indicata da Ratzinger, in non pochi casi si è preferito ricorrere a scorciatoie, spostamenti da una parte all’altra o anche espulsioni da un ordine, quando piuttosto sarebbe servita la pena più severa, ma giusta e necessaria, della riduzione allo stato laicale. Emblematico, in tal senso, com’è stato fin qui (mal)gestito il caso Rupnik e le relative accuse di abusi verso donne, un caso trattato ampiamente sulla Bussola e su cui, come nota la Scrosati, «sarebbe interessante che venisse istituito un processo, proprio per verificare i fatti e anche per capire chi ha coperto». D’altra parte, se il sacerdote sloveno fosse innocente, dovrebbe avere tutto l’interesse a dimostrarlo in un processo canonico. Invece, finora, la gestione della sua vicenda rivela i tratti di quello che si potrebbe chiamare, a ragione, “clericalismo”, cioè dell’abuso del ministero sacerdotale, al di là degli altri significati che si sono intesi attribuire al termine durante questo pontificato.
C’è poi tutto il tema della pseudo-legittimazione teologica degli abusi, basata su un falso misticismo, emerso di recente sia nelle cronache relative al caso Rupnik che nelle vicende riguardanti gli ormai defunti Jean Vanier e i fratelli Thomas e Marie-Dominique Philippe (vedi qui, qui e qui). Anche questo in generale, per il cenno che fa al racconto di una chierichetta abusata da un vicario parrocchiale, è un tema che Ratzinger mostrava di conoscere.
Nei suoi Appunti un altro elemento fondamentale per la comprensione è la sottolineatura che l’esplosione del fenomeno-abusi si collega direttamente al relativismo che ha investito la stessa teologia morale. «Benedetto XVI – ricostruisce la Scrosati – diceva che questo atteggiamento di indistinzione del bene e del male e di apertura incondizionata al mondo veniva e viene tutt’oggi presentata col nome di “conciliarità”».
Questa malintesa apertura al mondo, oltre che a influire sulla scelta dei vescovi, ha condotto diversi settori della Chiesa a mettere in discussione l’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, cioè di quegli atti che per la loro intenzionalità – ossia il loro oggetto – non possono mai essere ordinati al bene (a prescindere da intenzioni soggettive e circostanze). A motivo di questi errori di fondo, san Giovanni Paolo II scrisse la fondamentale Veritatis Splendor, enciclica in cui ribadì appunto l’insegnamento costante della Chiesa sugli intrinsece mala. Ora invece, osserva la Scrosati, «stiamo riprendendo la strada opposta, cioè abbiamo la sistematica messa in discussione del fatto che possano esistere atti intrinsecamente malvagi» e, soprattutto, ciò avviene da parte di varie istituzioni ecclesiali e dei loro vertici: vedi, ad esempio, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita (mons. Vincenzo Paglia), il preside dell’Istituto “Giovanni Paolo II” (p. Philippe Bordeyne) e, da ultimo, il neo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede (mons. Víctor Manuel Fernández).