Aborto in Italia, sulla sentenza europea c'è poco da festeggiare
Alcuni media cattolici hanno usato toni entusiastici per la notizia che il Consiglio d'Europa ha accolto il ricorso del governo italiano - contro la CGIL - a proposito di obiezione di coscienza all'aborto. Ma in realtà la partita non è ancora chiusa, perché all'Italia è chiesto un ulteriore rapporto.
Continua il braccio di ferro in Europa tra CGIL e governo italiano sull’obiezione di coscienza. Riassunto delle puntate precedenti. Nel 2013 la CGIL aveva presentato un ricorso (Réclamation n°91/2013) contro l’Italia presso il Consiglio d’Europa (che non è organo UE) perché, così si sosteneva, il numero elevato di obiettori negli ospedali italiani non permetteva un libero accesso all’aborto. Nell’aprile scorso il Comitato per i diritti sociali del Consiglio europeo aveva in buona sostanza dato ragione al sindacato: «Le lacune nella prestazione dei servizi d’interruzione di gravidanza in Italia non sono state ancora rimediate e le donne che desiderano ricorrere ai servizi di aborto continuano a incontrare nella pratica reali difficoltà», con «rischi considerevoli alla salute e al benessere delle donne coinvolte». Oltre a questo il Comitato aveva ravvisato sia squilibri funzionali nelle pratiche abortive da regione e regione, sia un trattamento discriminatorio tra personale obiettore e personale non obiettore: il primo sarebbe stato avvantaggiato nella carriera professionale a discapito del secondo.
A fine maggio il governo italiano aveva presentato le sue controdeduzioni, chiarendo che i medici non obiettori sono più che sufficienti per praticare gli aborti in Italia. Secondo la relazione presentata dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin siamo passati da 145 interventi pro-capite all’anno nel 1983 (picco massimo di aborti chirurgici registrato nel nostro Paese) a 70 nel 2013. Cioè 1,6 aborti alla settimana per medico (considerando 44 settimane lavorative all’anno). E dato che il numero di medici abortisti è rimasto sostanzialmente invariato, da ciò discende la conclusione che il carico di lavoro individuale negli anni è scemato. Inoltre si è evidenziato il fatto che se il numero di aborti corrisponde al 20% delle nascite (sic), il numero delle strutture ospedaliere che praticano aborti presenti nel nostro Paese è pari al 74% di quelle che forniscono servizi di maternità. Insomma in Italia ci sono proporzionalmente più strutture dedicate all’aborto che alle nascite.
Il 6 luglio scorso il Comitato dei Ministri del Consiglio europeo con un’apposita risoluzione (Résolution CM/ResChS -2016 -3) ha risposto alle controdeduzioni del nostro governo, affermando che il Comitato «prende nota delle informazioni fornite in seguito alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali e accoglie con favore gli sviluppi positivi intervenuti» e «attende con interesse il rapporto che sarà sottoposto [dall’Italia] al Comitato europeo dei diritti sociali nel 2017». Di più, oltre a disegnare una sintesi della vicenda giudiziaria, non si dice.
Come interpretare questa stringata conclusione del Comitato dei Ministri? Forse dicendo che di conclusione non si tratta. Da una parte infatti c’è un giudizio positivo sulle risposte fornite dal governo italiano: il Comitato dei Ministri di certo non ha dato ragione alla CGIL. Ma su altro fronte la partita non è ancora chiusa perché viene richiesto un ulteriore rapporto. Insomma lo studente è capace e ha dato prova di possedere buone qualità, ma vedremo se al momento dell’esame finale dimostrerà di essere ugualmente bravo. La risposta non potrebbe che essere interlocutoria proprio perché in Europa l’aborto è un totem intoccabile e quindi guai a dire a chiare lettere e in modo definitivo che in Italia si può abortire senza problemi.
I toni entusiastici con cui questa notizia è stata presentata su alcuni media cattolici quindi non sono giustificabili. C’è invece da rilevare che i dati forniti dalla Lorenzin hanno, almeno per ora, tappato la bocca a chi nel Consiglio europeo voleva mettere all’angolo l’Italia.
Una nota finale non di carattere giuridico-politico, ma si spera solo di buon senso. Triste, tristissima questa battaglia legale per dimostrare che in Italia non c’è problema alcuno ad abortire. Quanto vorremmo constatare l’esatto opposto e dare ragione alla CGIL.