A che punto è la notte a Damasco. L'islamizzazione procede a tappe forzate
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Reportage dalla capitale della nuova Siria, sotto il regime di Al Sharaa. L'islamizzazione procede speditamente, con inviti alla preghiera, barbe lunghe e donne velate. Nei quartieri dove non ci sono più le minoranze, i sunniti cantano vittoria. Le suore cattoliche sono al sicuro, per ora, ma sentono la morsa del regime.

Sabato entriamo dal Libano in territorio siriano, dove sono stati ripristinati i check point alla frontiera dopo il mese di anarchia seguente alla cacciata di Assad. Il visto, che sotto il vecchio regime costava 60 dollari, dopo un breve interregno di gratuità adesso costa 50 per chi viene dalla Russia, 75 per chi viene dall’Europa, 200 per i cittadini statunitensi e ben 400 per gli iraniani. Al controllo passaporti ci aspetta un’altra novità: accanto agli sportelli dedicati ai cittadini siriani, libanesi, di Paesi terzi e ai diplomatici si è aggiunto lo sportello per “donne”. Le pratiche per il visto turistico procedono spedite; ci sono poche persone che vogliono entrare. Il tassista, un giovane sunnita con barba a punta, dichiara che a lui la politica non interessa, che è un bravo ragazzo dedito solo alla casa e al lavoro.
Quando passiamo davanti al quartiere di Sumaria, però, teatro di violente repressioni nei confronti dei residenti alawiti, si lascia sfuggire un moto di soddisfazione: «Li hanno cacciati via tutti», ci informa, non richiesto. Mentre raggiungiamo l’hotel, qualcosa di anomalo nel traffico richiama la nostra attenzione: mancano le due ruote a motore, si vedono solo biciclette. Scooter, motori e motorini sono stati requisiti perché «senza autorizzazione» e a Damasco non possono circolare: sono in dotazione alle sole Forze dell’ordine «per scongiurare i furti», dice il tassista. Avvicinandoci al centro ci accoglie sui marciapiedi una piccola folla di mendicanti sporchi, scalzi, stracciati; soprattutto gli occhi vuoti dei bambini, i loro corpi macilenti, offrono uno spettacolo straziante. I vigili, tutti uomini con la barba a punta, si muovono numerosi nel traffico, fischietto alle labbra: bloccano il flusso delle auto, danno informazioni, piantonano la strada.
L’hotel, un quattro stelle western style, è semivuoto e silenzioso. Gli addetti alla reception offrono sorrisi e cortesia ma le bocche restano cucite. Raggiungiamo una missione di suore nel cuore di Damasco per sentire come vanno le cose. «Insomma...» ci accoglie suor Francesca (nome di fantasia, ndr). «A noi vogliono tutti bene, ci rispettano... ma alcuni dei nostri operai sono stati rapiti: da mesi le famiglie non hanno più loro notizie. Viviamo nell’apprensione. L’altra sera abbiamo sentito dei cannoneggiamenti e ci siamo preparate al peggio: ci hanno poi detto che era l’accoglienza ad Ahmed al Sharaa che tornava da New York». Cogliamo l’occasione per domandarle cosa pensa di tutte le barbe che sono in giro. «È la nuova moda…» risponde sorniona. Il tassista ci aveva spiegato che sotto il regime di Assad era proibito farsi crescere la barba, dunque ora gli uomini si sbizzarriscono. Per quanto riguarda le donne, è rarissimo vederne in strada una senza velo, spettacolo piuttosto inedito per la Siria che conoscevamo.
Ma la vera sorpresa arriva in serata: un’auto passa e ripassa sotto l’hotel, davanti ai locali gremiti di famiglie che mangiano e fumano la shisha, di giovani che chiacchierano e si divertono. Dai megafoni montati sul cofano esce una voce maschile dal tono minaccioso che ripete in loop sempre la stessa frase: si tratta del da' wa al islam, la “chiamata all’islam”, un invito a convertirsi alla religione islamica, a pregare e frequentare la moschea. L’auto continua il suo andirivieni per un’oretta buona, finché finalmente scompare nel buio. Per quanto riguarda l’adhān, la chiamata alla preghiera che i muezzin recitano dai minareti delle moschee cinque volte al giorno, ora ha un volume così alto che è impossibile da ignorare.
Il mattino dopo un impiegato dell’hotel ci domanda lontano da orecchie indiscrete se siamo della stampa. «Sono druso, di Suwayda. Qui a Damasco la situazione è a mala pena tollerabile, ma laggiù è disastrosa» ci dice spontaneamente. «Ho perso mio padre e un fratello negli ultimi scontri, e il resto della famiglia è scappato dalla città. Mancano l’acqua e la corrente, non si può restare». Dopo i terribili giorni di scontri del luglio scorso, convogli della Mezzaluna Rossa e dell’ONU entrarono a Suwayda per portare soccorso agli abitanti. Ne chiediamo conto al nostro interlocutore. «L’ONU ha distribuito del pane che è bastato per quattro giorni. E poi?».
Facciamo un giro nel suq Al Hamidiyeh, al centro della città vecchia, affollato e multicolore; tutto sembra come sempre, se non fosse per i banchetti che vendono souvenir del nuovo regime e caricature di Assad. Poi però, a due passi dalla Grande Moschea degli Ommayadi, cominciamo a intravedere uomini armati. In divisa e non, da soli o in piccoli gruppi, giovanissimi o più maturi, sfrecciano sui motorini, passano tra la gente o sono seduti a guardare il passeggio. Portano kalashnikov e pistole con la massima naturalezza e i passanti sembrano non farci caso, anche se la loro sola presenza basta a creare un clima di tensione e inquietudine. Ai margini del centro, le panetterie sfornano il qubz, il pane tipico, a prezzo sussidiato. Decine di persone fanno lunghe file per averlo e una volta ottenuta la propria razione si fermano ai lati delle strade per rivenderlo. Sono soprattutto uomini anziani, donne in nero e ragazzini che cercano di raggranellare qualcosa per campare. Tutti sperano che le cose in futuro vadano meglio - “We wish..” si sente dire ovunque - ma negli sguardi si percepisce spesso la disperazione.
«Fino ad oggi le cose andavano bene per noi, tutti ci rispettavano e non abbiamo mai avuto problemi» dice Ala, (nome di fantasia) palestinese nato a Damasco. «Ora vediamo cosa deciderà di fare con noi il governo... se le cose andranno male, cercheremo di emigrare». Ed è il pensiero di molti, se non di tutti, qui a Damasco.