A centocinquant’anni dalla nascita di un Premio Nobel dimenticato
Scrittrice fecondissima, Grazia Deledda (1871-1936) si inserisce nella teoria dei letterati italiani che sono stati insigniti del Premio Nobel, che comprende G. Carducci (1906), L. Pirandello (1934), S. Quasimodo (1959), E. Montale (1975), Dario Fo (1997).
È l’unica donna italiana presente nel novero. Per questo sorprendono sia l’oscurità in cui è caduta in questi decenni che lo spazio pressoché assente a lei riservato negli studi superiori. Un rapido questionario condotto tra gli studenti ci testimonierebbe che quasi nessuno di loro ha mai sentito parlare della scrittrice sarda che ha composto trecentocinquanta novelle, trentacinque romanzi oltre che poesie. Molte sue opere, poi, sono state anche trasposte a livello cinematografico (tra queste Cenere, L’edera, Canne al vento).
La sua figura è stata spesso affiancata a quella di Verga: come quest’ultimo ha fatto spesso riferimento alla sua terra natale (la Sicilia), anche nella produzione della Deledda c’è un costante richiamo alla sua Sardegna, che diviene luogo simbolico dell’eterno dramma del vivere e del morire.
Eppure i protagonisti dei romanzi della Deledda sono molto diversi da quelli verghiani, «vinti», costretti a soggiacere alla vita e al progresso, sia che cerchino di staccarsi dallo scoglio senza ottenere fortuna (è il caso del giovane ‘Ntoni dei Malavoglia) sia che riescano ad ottenere fortuna abbandonando la propria classe sociale, trovando, poi, solo solitudine (come accade a Mastro don Gesualdo). In Verga non si avverte un destino buono e positivo. Non è dato capire quale sia il fine della sofferenza e della fatica. L’ostrica rimane attaccata allo scoglio perché altrimenti soccomberebbe in mezzo al mare, preda dei pesci. La legge di natura porta alla sopravvivenza finché si è in questo mondo. Del dopo non si parla. Ad una redenzione già nell’al di qua non si fa riferimento.
Così, non è, però, nei romanzi della Deledda. Riscopriamo oggi questo Premio Nobel dimenticato.