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IL SOCIOLOGO

Zitelmann: povertà e ambiente si curano col capitalismo non con l'ecologismo

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Non esiste più una classe media. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Noi siamo responsabili dell’inquinamento del pianeta e del riscaldamento globale, ma a pagare sono i paesi poveri. Esportiamo altrove il nostro inquinamento. Dopo il Covid serve un Great Reset. Ma queste affermazioni sono vere? No, sono puramente ideologiche. A questi miti risponde, colpo su colpo, lo storico e sociologio Rainer Zitelmann, che abbiamo intervistato in occasione del suo provocatorio Elogio del capitalismo. Che smonta anche il mito del "modello cinese" (che non esiste). 

Economia 09_05_2023 Español
Rainer Zitelmann e la curva della povertà nel mondo

Non esiste più una classe media. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Noi siamo responsabili dell’inquinamento del pianeta e del riscaldamento globale, ma a pagare sono i paesi poveri. Esportiamo altrove il nostro inquinamento. Serve un Great Reset per il nostro sistema e ripartire da zero con un altro modello. Quante volte abbiamo sentito esporre questi concetti con la certezza di un dogma? Rainer Zitelmann, storico e sociologo tedesco, diventato celebre anche per aver scritto la prima biografia economica del nazionalsocialismo (in cui dimostrava tutte le sue affinità con l’altro socialismo, quello internazionale), si è imbarcato nella difficile impresa di smontare tutti i miti negativi del sistema economico capitalista che caratterizza sia il mondo industrializzato che quello in via di sviluppo. Il suo libro si intitola Elogio del capitalismo, dieci miti da sfatare (edito da Istituto Bruno Leoni). E già detto così, in una cultura come quella italiana, parrebbe una mera provocazione. Invece Zitelmann non scherza affatto. Quando lo incontriamo, ci mostra dati, mappe e grafici, con pacatezza smonta le tesi più trite e ritrite di no-global, ecologisti e anche non pochi conservatori odierni.

Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, per la maggior parte degli americani (soprattutto repubblicani) si sta peggio oggi che 50 anni fa. È vero? O è un errore di percezione?
È incredibile vedere come la percezione sia così lontana dalla realtà. Sotto tutti i punti di vista si sta decisamente meglio oggi rispetto a 50 anni fa, l’americano medio è decisamente più ricco e benestante rispetto a quello di mezzo secolo fa. Nello studio The Myth of American Inequality, composto esclusivamente da statistiche ufficiali, viene mostrato come la differenza fra il ceto medio e i poveri sia sempre meno accentuata. Ma non perché le cose vadano peggio. Tutt’altro: perché è aumentata la spesa sociale per i poveri. Chi appartiene alla classe media si sente istintivamente più povero, perché non percepisce più una grande differenza rispetto ai ceti più poveri. E la maggior parte della gente ragiona e percepisce la propria condizione solo facendo paragoni. Il secondo errore di percezione è dato dalla nostalgia. Molti sono veramente convinti che nel passato le cose andassero meglio e la vita fosse più felice. E questo è un classico di tutte le epoche, anche durante la prima industrializzazione si mitizzava la vita agricola, dimenticando l’inferno di continue carestie. Ma la gente ha semplicemente dimenticato quanto fosse tutto più difficile cinquant’anni fa. Infine c’è anche la difficoltà di capire cosa sia realmente la classe media. Quasi sempre la gente tende ad identificarsi come “classe media”, non povera e non ricca. Queste dinamiche sono vere negli Stati Uniti, ma sono valide anche per la maggior parte delle nazioni industrializzate con un grande welfare state.

Nel mondo, si dice, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È vero?
No, non è vero. Se prendiamo come parametro la povertà estrema (chi guadagna meno di 1,9 dollari al giorno, ndr), questa riguardava il 42% della popolazione mondiale nel 1981 ed oggi meno del 10%. In Cina, l’88% della popolazione viveva in povertà assoluta nel 1981, oggi è l’1%. A Pechino abitano più miliardari che a New York. È vero che i ricchi sono diventati più ricchi, ma ci sono sempre meno poveri nel mondo. È aumentata la distanza fra ricchi e poveri? Sì, ma perché prima c’era più uguaglianza nella povertà, oggi è aumentato il numero di ricchi. La ragione è sempre la crescita economica. E nemmeno il Covid ha invertito questa tendenza. Molto spesso però si sente l’argomento dei “ricchi più ricchi e poveri più poveri” perché la gente tende a credere che il capitalismo sia un gioco a somma zero: se c’è qualcuno che si arricchisce, vorrà dire che lo sta facendo a spese di qualcun altro. Ma è un concetto economico errato. Il mercato non è un gioco a somma zero. Come dimostra il puro e semplice fatto che il numero dei miliardari è enormemente aumentato negli ultimi 40 anni, mentre la povertà diminuiva. Se il mercato fosse un gioco a somma zero, questa tendenza non si sarebbe mai realizzata.

Anche negli organismi internazionali è passato il concetto della “giustizia climatica”: il mondo industrializzato è responsabile per il cambiamento climatico e il prezzo viene pagato dai Paesi più poveri. Dovremmo risarcirli?
Secondo questo schematismo, i ricchi sono i più cattivi perché inquinano di più, poi ci sono i poveri che inquinano meno e chi non possiede nulla è ancora meglio perché emette ancora meno CO2. Ma i preferiti sono i morti, che non ne emettono affatto. Una volta parlai con una donna inglese che si era fatta sterilizzare per motivi climatici: gli uomini più rispettosi dell’ambiente sono quelli che non nascono neppure. Io credo che tutto ciò non sia razionale, ma solo il prodotto di una nuova ideologia millenarista. Ma se pensiamo ai problemi, reali, dell’ambiente, vediamo che la scena cambia completamente. Se incrociamo l’Indice di Libertà Economica con l’Indice di Protezione Ambientale, vediamo che i Paesi in cui è garantita una maggior libertà economica, che poi sono anche quelli più ricchi, sono maggiormente rispettosi dell’ambiente. Al calare della libertà economica, peggiora anche la tutela dell’ambiente. E i peggiori, dal punto di vista ambientale, sono proprio i Paesi con un’economia pianificata dallo Stato. L’Urss, storicamente, ha lasciato un disastro ambientale senza precedenti. Se confrontiamo le emissioni di CO2 pro-capite della Germania Ovest e della Germania Est, in cinquant’anni vediamo che la Germania Est comunista batte di gran lunga quella occidentale capitalista, quanto ad emissioni pro-capite. Nel 1989, la Repubblica Democratica Tedesca (comunista) emetteva il triplo della CO2 per ogni punto di Pil rispetto alla Repubblica Federale Tedesca. Se vogliamo risolvere i problemi ambientali, dobbiamo lasciare libero il mercato. Gli ambientalisti, al contrario, vogliono abolire il capitalismo e sono tutti, chi più chi meno, favorevoli ad un’economia pianificata.

Cosa vogliono, realmente, gli ambientalisti?
In tutti i libri di maggior successo che propongono un programma ambientalista, come quello di Naomi Klein o quello più recente di Greta Thunberg, leggiamo che: viaggiare in auto deve essere proibito, volare deve essere proibito, ciascuno deve mangiare meno e sicuramente non proteine e grassi, dovremmo smettere di costruire case e ridurre il riscaldamento in quelle già costruite. Greta Thunberg respinge ogni soluzione: non vuole nemmeno le auto elettriche, è contraria alle centrali nucleari… suggerisce solo due cose: la gente deve cedere al panico e il capitalismo deve essere abolito. In generale, gli ambientalisti chiedono un’economia pianificata. Ma è una follia, l’economia pianificata, come mostra la storia, non ha mai risolto alcun problema, men che meno quello dell’ambiente. È assurdo pensare, poi, che si possa ridurre l’emissione di CO2 o esaurire le risorse naturali, se si produce di più. L’economia moderna, post-industriale, sempre più immateriale, ci mostra come possiamo avere sempre di più con sempre meno materiali. Pensiamo solo a quanti dispositivi vengono sostituiti da un semplice smartphone nel palmo della nostra mano: telefono, radio, registratore, lettore di Cd, sveglia, mappe, navigatore satellitare, calcolatrice, bussola, torcia, intere librerie… è anche difficile elencare tutto. Se noi andiamo a vedere come si sono evolute le economie moderne, vediamo che l’aumento del Pil non coincide affatto con quello della CO2. Dopo un certo livello di sviluppo, le due linee si sdoppiano, quella della CO2 tende a non crescere più, per lo meno non alla stessa velocità della crescita economica.

Dopo il Covid, diversi economisti e Klaus Schwab (fondatore del Forum di Davos) hanno affermato che occorre un Grande Reset e ripartire da zero, con un altro sistema. Cose ne pensa?
Come tutti i grandi progetti, ne penso tutto il male possibile. Penso che ogni progetto disegnato a tavolino, dagli intellettuali, per cercare di cambiare e rimodellare la società sia destinato a fallire. Prima ancora che si inizi a scrivere un libro su come deve funzionare la società del futuro, quel progetto già smette di funzionare. Il capitalismo, come insegnava l'economista Hayek, non è prodotto da un progetto, ma è un ordine spontaneo. Gli intellettuali, questo, non lo hanno mai capito. Non lo ha capito Lenin, né Thomas Piketty (economista neo-marxista, ndr) e neppure Klaus Schwab. Gli intellettuali non hanno mai apprezzato qualcosa che sfugge alla loro pianificazione. Eppure il capitalismo ha successo perché sa rinnovarsi continuamente, senza che nessuno lo ordini.

Visti i tassi di crescita che lo caratterizzano, il modello cinese supererà quello del capitalismo occidentale?
Non è mai esistito un “modello cinese”. È un mito occidentale a cui, purtroppo, inizia a credere anche la classe dirigente cinese. La crescita cinese, però, è avvenuta nonostante lo Stato (e il suo presunto modello superiore) e non grazie alle idee di Deng o dei suoi successori fino a Xi. Finora l’economia è cresciuta solo perché il Partito Comunista ha allentato i controlli, ha permesso di produrre e vendere, senza punire. Ma parlare di un “modello cinese” superiore al capitalismo è un abbaglio. Come spiega bene, con una metafora, il mio amico economista Weiying Zhang: “Immaginatevi una persona senza un braccio che corre velocissima. Se arrivate alla conclusione che la sua velocità derivi dalla mancanza del braccio, allora potreste consigliare l’amputazione a chi vuol correre più forte. Il risultato sarebbe, però, disastroso”.