Virgilio, Enea e il Tartaro
Nella sua opera maxima, l'Eneide, Virgilio descrive la catabasi di Enea negli Inferi e i suoi incontri con Palinuro, con Didone, con Caronte. In un orrendo strazio di catene e lamenti, ecco come gli antichi romani indicavano l'aldilà. E la vera dannazione dei morti è la nostalgia.
I popoli antichi ponevano l’entrata agli Inferi in luoghi che per caratteristiche e suggestione lugubre sembravano nascondere l’accesso alle viscere profonde della Terra. Una di queste entrate nell’Ade era collocata nelle vicinanze di Cuma, nei pressi del Lago Averno, luogo selvaggio e malsano fino alle bonifiche avvenute sotto Augusto, spesso ricoperto da una fitta nebbia e che si prestava, quindi, all’immaginazione di reconditi e spettrali accessi infernali. «Il paese di Cuma, in Italia, regione di vulcani spenti, dove i laghi, che riempiono antichi crateri annebbiati di vapori sulfurei, non vedono il volo degli uccelli, paese di profonde foreste, di maremme infestate di cinghiali e bufali, labirinto di caverne tenebrose e senza fondo, fu il teatro di quasi tutte le discese agli Inferi dell’antichità». (Charles Moeller)
L’immortale libro VI dell’Eneide racconta la più nota delle catabasi della letteratura latina, la discesa di Enea nell’Ade per incontrare il padre Anchise, da poco morto, e conoscere da lui il destino del popolo troiano. «C’era una grotta profonda e mostruosamente slabbrata/ sulla roccia, difesa da un lago nero e dal buio dei boschi:/ sopra di lei nessun uccello impunemente poteva/ dirigere il volo, tale il fetore che sprigionandosi/ dalla tetra voragine saliva sino alla calotta del cielo». Dopo aver immolato agli dei con bestie sacrificali, all’alba la Sibilla cumana, la celebre sacerdotessa che vaticina nel suo antro, inizia il viaggio nell’Ade in compagnia di Enea.
Entrati nel regno dei morti, in mezzo ad una folta nebbia, i due viandanti vedono il vestibolo. «Proprio davanti al vestibolo, sul primo imbocco dell’Orco,/ il Lutto e i Rimorsi vendicativi hanno la loro tana;/ abitano pallide le Malattie e la triste Vecchiaia/ e la Paura e la Fame sconsiderata e la turpe Miseria,/ forme tutte orrende a vedersi, e la Morte e l’Angoscia;/ poi, consanguineo alla Morte, il Torpore, e i Pensieri morbosi,/ e sul versante opposto la Guerra assassina, e le cucce/ di ferro delle Eumenidi, e la Discordia demente,/ le vipere dei capelli legate da bende di sangue».
Si animano qui di fronte ad Enea enormi mostri, Centauri, Scille biformi, i giganti, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie. Sono solo fantasmi incorporei, ma, ignaro di ciò, Enea estrae la spada per affrontarli. La Sibilla lo avverte della loro inconsistenza e dell’inanità del suo sforzo. Appare allora davanti agli occhi del pio troiano il fiume Acheronte, le cui acque defluiscono nel Cocito. Orrendo traghettatore, Caronte sta a guardia del fiume, accompagna le anime da una sponda all’altra. Le anime degli insepolti, però, non possono attraversare il fiume, ma devono aspettare per cent’anni lungo la sponda, se il loro corpo non viene trovato prima e sepolto.
Enea incontra allora il proprio compagno Palinuro, morto insepolto, e discorre con lui. Infine, si avvicina alla riva dell’Acheronte dove Caronte cerca di spaventarlo e di dissuaderlo dal salire sulla barca, dal momento che è ancora vivo. Solo l’intervento della Sibilla e la vista del ramo d’oro convincono il traghettatore ad accoglierlo nel vascello con la profetessa. Dall’altra parte del fiume, ad Enea si presenta quindi un antro, a difesa del quale sta Cerbero, immane bestia dalle tre teste rabbiose. «Una focaccia soporifera di miele e di farina drogata» fa addormentare la spaventosa bestia e i due entrano nella porta.
«Si sentono subito voci e un immenso vagito: anime/ di bambini che piangono sul limitare, ignari/ della dolcezza di vivere e che, strappati al capezzolo,/ un giorno nero ha rapito e sepolto in un lutto precoce./ Vicino a loro, i condannati a morte su false accuse». Sono i morti prima del tempo, custoditi da Minosse. Risiedono qui anche i suicidi che «in odio alla luce/ la vita han gettato via. Come vorrebbero adesso/ sotto il cielo lassù sopportare pene e miseria!».
Quale nostalgia, quale malinconia accompagna la narrazione virgiliana! Inconsolabile è la sofferenza per una cultura che non conosce il perdono, la misericordia e la redenzione! Chi potrà restituire gli anni della gioventù perduti e i propri cari strappati dalla nera morte? Completano la zona dei morti prima del tempo i Campi del pianto in cui vagano le anime dei suicidi per amore (tristissimo è l’incontro di Enea con Didone) e l’area dei guerrieri gloriosi.
La Sibilla concede solo un po’ di tempo ad Enea per parlare con le anime incontrate. Dopodiché indica all’eroe la biforcazione della strada in due sentieri: «quello di destra porta sotto le mura del grande Dite/ (è la via per l’Eliso, la nostra); la sinistra avvia al castigo/ il traffico dei colpevoli, e conduce all’empio Tartaro». A sinistra, quindi, appare ad Enea il Tartaro, che in un certo qual modo corrisponde all’Inferno. Si presenta come una grande città, circondata da triplici mura e attorniata dal fiume Flegetonte che con le sue acque infuocate rivolta massi. Una porta enorme con stipiti di acciaio durissimi e indistruttibili vieta l’accesso se non a quanti, già defunti, hanno meritato il giusto castigo. Solo la Sibilla ebbe un tempo la facoltà di accedervi.
A guardia dell’ingresso sta Tisìfone, notte e giorno. Gli dei stessi non potrebbero distruggere quella porta. Gli dei romani, come del resto quelli greci, non hanno nulla a che fare con l’onnipotente Dio cristiano. Poco prima Virgilio aveva del resto scritto che sul Cocito e sulla palude stigia «temono di spergiurare gli dei». Gli stessi dei sembrano sottomessi e subalterni all’Oltremondo, segno questo del terrore che gli antichi vivevano di fronte all’evento della morte e del senso di totale impotenza: non è neppure consentito loro di pregare gli dei, che non possono nulla. Provenienti dal Tartaro, «si distinguono gemiti, e il fischio di staffilate/ crudeli, e stridore di ferri, strascichio di catene».
Radamanto, fratello di Minosse e guardiano del Tartaro, costringe a confessare le colpe commesse in vita. A seguire Tisìfone flagella le anime dei colpevoli che vengono scaraventate giù nella voragine che si apre nella terra per una profondità che è due volte l’altezza dell’Olimpo. Non sono descritte zone o cerchi del Tartaro, ma un coacervo confuso e magmatico di dannati abita questi nascosti recessi dell’Ade, colpevoli di ogni genere. I Titani, i gemelli aloidi, Salmoneo e tutti gli altri che peccarono di hybris, ovvero di temerarietà verso gli dei, i fratricidi, i parricidi, i traditori e gli ingannatori, i morti in flagranza di adulterio, chi ha varato leggi per un proprio tornaconto, chi si è macchiato di incesto, tutti quanti hanno militato sotto infami insegne o hanno violato la pietas (sentimento di riverenza nei confronti di chi ci è superiore, gli dei, gli antenati, i genitori, il comandante): queste e tante altre colpe sono punite negli abissi del Tartaro.
Molteplici sono le pene comminate a questi dannati: «rotolano alcuni macigni enormi, penzolano altri/ legati ai raggi d’una ruota, siede immoto l’infelice Tèseo/ dove siederà in eterno; e, più sventurato di tutti, Flègias/ tutti ammonisce e chiama a testimoni proclamando alle ombre:/ - Dal mio esempio imparate la giustizia e a non sfidare gli dei». Giunto davanti alla porta, Enea deterge il suo corpo con l’acqua, compie il rituale richiesto e «affigge il ramo ad un battente». Giunta è ormai per lui l’ora di dirigersi verso i campi Elisi, la sede dei beati.