Vienna, il fine sociale non giustifica la profanazione
La profanazione avvenuta nella cattedrale di Vienna per la raccolta di fondi a favore dei malati di Aids, con la benedizione del cardinale Schönborn, si presta a diverse riflessioni. Certamente è un segno che nelle chiese non si prega più.
“Corruptio optimi pessima”: così recita una massima latina che si potrebbe parafrasare : “la corruzione di ciò che era ottimo arriva a un risultato che è il peggio del peggio”. Così è avvenuto all’inizio di questo mese di dicembre a Vienna: uno spettacolo nella Cattedrale di Santo Stefano con la finalità di raccogliere fondi per i malati di Aids promosso dall’attivista gay Gery Keszler e con la partecipazione dell’attore Philipp Hochmair, anch’egli come Keszler, ed esibitosi a torso nudo con la benedizione dell’arcivescovo di Vienna Schönborn.
La “corruptio optimi pessima” scatta quando si pensa a che cosa è stata ridotta la Cattedrale di Vienna e all’arcivescovo card. Schönborn che ha presenziato alla manifestazione e alla fine si è fatto fotografare insieme al gruppetto degli organizzatori che esibivano un manifesto con la cifra incassata: un successo per i soldi raccolti e, lo si lascia intendere, un successo umanitario in termini di accoglienza dei “diversi”.
Le reazioni provenienti dal versante tradizionale hanno stigmatizzato la profanazione. Concordo, ma vorrei proporre alcune riflessioni complementari.
Anzitutto credo che visionare una galleria un po’ abbondante di immagini fornisca una valutazione esatta dell’accaduto perché si troveranno figure diabolicamente cornute, atteggiamenti scomposti, e... una profanazione nella profanazione. Infatti, oltre alla sconvenienza dello spettacolo, si scopre che Hochmair fa uso di una croce e di un crocifisso al collo, che in certe foto appaiono insieme a una grande fibbia sotto l’ombelico a forma di teschio con le due ossa incrociate a x. Il senso del teschio qui è tutt’altro da ciò che gli iconografi esprimono mettendo un teschio ai piedi di Gesù Cristo in croce vincitore della morte. Qui è semplicemente un accostamento con il gusto dello spettacolare, dell’orrido, di una certa simpatia con la forza distruttrice della vita. E così croce e crocifisso al collo sono profanati.
Al vedere quel corpo esibito risuona l’avvertimento dell’Apostolo: «tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10). “Quando era nel corpo” nell’originale suona “dià tou sòmatos pros a épraxen / quae per corpus gessit” che potrebbe essere tradotto con “quelle cose che ha fatto tramite il corpo”. E quanto nello spettacolo si è fatto “tramite il corpo”! Quale sarà il giudizio di Gesù Cristo? Con quale allegria si presenteranno di fronte a lui quanti hanno esibito così il corpo?
La seconda considerazione è la necessità di prendere atto che esiste il salto della quaglia anche negli uomini di Chiesa, in modo più lento della quaglia ma con gli stessi risultati.
Schönborn, frate domenicano poi vescovo, era un bravo ragazzo e poi un giovane vescovo tradizionale ma non tradizionalista; aperto ma saldissimo nella dottrina; discepolo di Ratzinger; colui che aveva messo mano alla redazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) e che aveva concesso un’intervista a dieci anni dall’uscita del CCC; un personaggio intervistato volentieri dal mensile “30 Giorni”; un arcivescovo che ci teneva a formare i seminaristi portandoli con sé in vacanza; un arcivescovo e cardinale che si era recato pellegrino a Medjugorje ecc. Affidiamoci a lui!
E invece sembra di sentire l’elogio a Salomone: «Come fosti saggio nella tua giovinezza e fosti colmo di intelligenza come un fiume! ... Ma hai steso i tuoi fianchi accanto alle donne e ne fosti dominato nel tuo corpo. Hai macchiato la tua gloria» (Sir 47,14.19-20). Precisiamo: con “fianchi alle donne” il Siracide non intende tanto l’attività sessuale - il padre di Salomone, il pio e santo re Davide, in questo resse brillantemente il confronto con il figlio! -, quanto l’adozione della cultura delle donne straniere e la venerazione dei loro dèi. Così adagio adagio anche Schönborn ha preso altre posizioni, ha sperimentato altre aperture note a chi segue queste vicende, sino alla legittimazione a fin di bene dello spettacolo in oggetto.
Il discorso va ampliato. Anche nell’episcopato italiano, sia pure in tono minore, si danno dei casi analoghi. Tutto questo fa molto soffrire, ma va accettato con pazienza, così come i genitori seguono con dolore e con amore le crisi adolescenziali dei propri figli. E forse è una purificazione che Dio permette perché i veri fedeli cerchino solo in Lui e non in altri la propria sicurezza: «Solo in Dio riposa l’anima mia; da lui la mia salvezza... da lui la mia speranza» (Sal 62,1.6).
In terzo luogo Schönborn, classe 1945, in realtà si chiama Christoph Maria Michael Hugo Damian Peter Adalbert Schönborn. La sequenza dei nomi lo colloca tra i rampolli di una buona e nobile famiglia, tra l’altro benemerita per servizi resi alla Chiesa da altri antenati.
Ovvio che nessuno sceglie il contesto della propria nascita e dunque a nessuno si possono imputare i condizionamenti derivanti da un certo contesto. Ciò precisato, i condizionamenti ci sono, anche se sono superabili. Un condizionamento dei nobili è di recuperare quello che a loro sembra mancare, cioè la solidarietà con le classi abbienti, il nuovo che avanza e non solo la tradizione della quale sono depositari. Così non solo Schönborn ma un qualsiasi ecclesiastico di rango con una origine nobile avrebbe avuto la tentazione di accogliere e legittimare ciò che era abbastanza estraneo alla serietà della sua origine e dunque di legittimare lo spettacolo svoltosi nella Cattedrale di Vienna. E con l’inconscia convinzione di saperlo gestire e frenare a tempo giusto poiché egli appartiene agli “educatori” del popolo.
Ma ahimè, talvolta certe tendenze, accolte senza precisi paletti, poi sfuggono di mano. È un fenomeno che accade anche nella Chiesa ed è accaduto soprattutto nel post concilio (il pontificato di Montini potrebbe essere analizzato anche con questa categoria). Per cui non bisogna cullarsi in vane illusioni: l’accoglienza in Cattedrale a Vienna di persone, modi di fare, idee ecc. non porterà le persone verso Cristo né ci sarà un uomo nobile capace di gestire ed educare tutto questo senza porre chiaramente dei paletti.
In quarto luogo a Vienna è emersa una motivazione tipica che induce a infrangere le regole soprattutto liturgiche e relative alla dignità del luogo sacro: il fine sociale, nel nostro caso l’aiuto ai malati di Aids. La seconda motivazione - qui assente ma presente in altri casi - è la destinazione dell’evento ai giovani o ai bambini, in funzione dei quali si può fare di tutto.
In realtà la vecchia morale, parafrasando un testo di Rm 3,8, sentenziava: «non sunt facienda mala ut veniant bona / non è possibile fare il male perché ne derivi del bene». E tra i mali da non farsi vanno annoverati anche l’inosservanza delle leggi liturgiche e della santità degli edifici sacri. In realtà un tempo parecchi santi sociali - e segnatamente quelli del 1800 - hanno operato tantissimo bene a favore dei sofferenti e degli emarginati, ma non hanno mai messo in discussione la dottrina e tanto meno la santità dell’atteggiamento da tenersi in chiesa; anzi, tendevano a portare in chiesa i sofferenti, gli emarginati, gli educandi ecc. e a farli pregare, convinti che era il meglio che potessero offrire loro.
In quinto luogo l’evento segna il venire meno della esperienza di preghiera in chiesa e del senso sacro della liturgia e del luogo. È questa esperienza e la sensibilità maturata che avrebbero fatto scattare un moto di rifiuto. Ma quando ormai a pregare così in chiesa sono pochi, dei molti che restano più nessuno rifiuta perché più nessuno avverte l’incongruenza di certe manifestazioni, in barba ai documenti sui concerti nelle chiese.
La domanda che sorge è: “Ma perché i buoni oranti sono rimasti così pochi? È Dio che ha chiuso i rubinetti della grazia o è una pastorale che...?”. E proseguendo mi è venuto da domandarmi: “Una iniziativa del genere avrebbe mai potuto avere spazio in una chiesa dove si celebra in VO (Vetus Ordo, la Messa preconciliare), in una chiesa ortodossa, in una moschea?”. Non ho la certezza assoluta delle risposte, ma ho la certezza che è triste arrivare a sollevare interrogativi del genere.
Conclusione. Continuo ad onorare il carisma episcopale di Schönborn e non fisso né lui e né gli altri in questo evento: l’uomo può cambiare con la sua saggezza e con l’aiuto divino. A me stesso e ai critici dell’evento ripeto con l’Apostolo: «chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Anzi, spero che Dio tocchi il cuore di quanti ho citato e insieme possiamo ritrovarci nella Gerusalemme del cielo.
Per adesso però cito quanto san Tommaso d’Aquino scrisse sulla presunzione, che è il vizio contrario alla speranza per eccesso: «per il fatto stesso che uno desidera la gloria, ne segue che cerchi di raggiungere una gloria che è al di sopra delle sue forze. E ciò riguarda soprattutto il tendere alle novità, che producono una maggiore ammirazione. Di conseguenza opportunamente Gregorio annovera la presunzione come figlia della vanagloria» (II-II, q 21, a 4; per Gregorio Magno cf PL 76,621). Presumere di poter fare di più di quanto è concesso, cercare le novità per una gloria che in fondo è vana: e se rileggessimo tutto daccapo alla luce di questa citazione?