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Vangeli sinottici, la "fonte Q" non esiste

A un altro ecclesiastico anglicano, John William Wenham, dobbiamo uno studio che, nel retrodatare i vangeli di Matteo, Marco e Luca, sostiene la tesi secondo cui non esisterebbe una "fonte Q" da cui i tre avrebbero tratto i loro racconti, ma che le somiglianze si spiegano con la predicazione dei primi anni.

Catechismo 03_04_2022

Con la pubblicazione, nel 1976, di Redating the New Testament, il vescovo anglicano John A. T. Robinson (vedi qui, qui e qui) aveva provocato un terremoto e aperto una strada ben fondata per la riconsiderazione della datazione dei libri del Nuovo Testamento. A raccoglierne in qualche modo il testimone fu un altro ecclesiastico anglicano, John William Wenham (1913-1996), vice-direttore per diciassette anni del Tyndale Hall di Bristol, che fin dalle prime pagine della sua pubblicazione di maggior successo, Redating Matthew, Mark & Luke (1992), di recente ristampa, riconobbe a Robinson il merito di aver portato alla luce alcuni punti fermi per una retrodatazione degli scritti neotestamentari, prima del fatidico 70 d.C.

Ma, come si può notare dal titolo, Wenham aveva particolarmente a cuore i Vangeli sinottici e la questione sinottica. Con quest’ultima espressione si intende quell’insieme di tentativi di risposta alla domanda su come fossero nati i primi tre Vangeli, dal momento che essi contengono numerose somiglianze, facilmente notabili ponendo i testi su tre colonne parallele. Da qui, appunto, il temine “Vangeli sinottici”, coniato da J. J. Griesbach nel 1776. 

Il modello genealogico che ha riscontrato maggior successo – e che continua, con laboriose varianti, ad essere insegnato dalle cattedre universitarie – è quello delle “due fonti”. Secondo questa teoria, i Vangeli di Matteo e Luca dipenderebbero letterariamente da due fonti comuni, ossia il Vangelo di Marco e la cosiddetta “fonte Q” o “loghia”, un documento indipendente, scritto in greco, contenente principalmente i detti di Gesù. Un documento che però ha il limite non trascurabile di esistere solo nella mente di chi lo ha partorito.

Wenham, attraverso una meticolosa rassegna dei testi dei tre Vangeli, proponeva un solido «nuovo approccio al problema sinottico», negando «una dipendenza letteraria come spiegazione primaria delle somiglianze dei vangeli» e che mettendo nel contempo in dubbio anche una «totale indipendenza letteraria» (p. xxiii) dei tre Vangeli. Wenham in pratica sosteneva, con numerose prove a supporto, che i tre evangelisti non siano del tutto indipendenti l’uno dall’altro, ma che nel contempo, non siano legati da una dipendenza letteraria né reciproca, né da alcuna altra fonte primaria.

Nella monografia del 1992, viene anzitutto liberato il campo dalla fantomatica “fonte Q”, la quale crea più problemi di quanti si pensa possa risolverne. Infatti, il materiale comune a Matteo e Luca, che si ipotizza essere derivato da questa “fonte” scritta (3861 parole in Matteo e 3663 in Luca), presenta sì somiglianze (1851 parole identiche sia nella loro forma che nella loro sequenza), ma anche profonde differenze, soprattutto nella sezione centrale di Luca, in particolare per quanto riguarda l’ordine di organizzazione dei loghia di Gesù. Ed infatti, per spiegare il complesso intreccio di analogie e differenze, ora a livello delle espressioni e ora dell’ordine utilizzato, la “fonte Q” è divenuta tutto e il contrario di tutto, come ha fatto notare S. Petrie nel suo articolo dal titolo quanto mai significativo «”Q” is Only  What You Make It» (Novum Testamentum, 3([1959]): documento singolo, o più documenti; originale greco o aramaico; con una forma definita, senza una forma definita; senza parti narrative, con parti narrative, etc.

Ma allora come spiegare queste somiglianze che vengono riferite appunto al materiale Q presente sia in Matteo che in Luca? «La risposta più semplice è la più rivoluzionaria. La risposta potrebbe consistere nel fatto che questi passi-Q non hanno un’origine letteraria comune, o anche orale, ma provengono dai diversi detti di Gesù» (pp. 76-77). Quelle parole di Gesù ripetute continuamente dai diversi predicatori «a volte con parole identiche, altre volte con leggere variazioni, altre volte ancora con nuove applicazioni» (p. 77).

In modo più completo, Wenham spiegava che, concordemente alle testimonianze esterne dei primissimi secoli del Cristianesimo, il primo a scrivere il Vangelo è stato Matteo, «probabilmente mettendo per iscritto quanto lui e i suoi collaboratori avevano la consuetudine di insegnare al flusso di visitatori che venivano a Gerusalemme [...]. Marco probabilmente scrisse nel modo in cui lui e Pietro erano soliti insegnare, basando il suo ordine su Matteo e forse utilizzando Matteo nel controllare la sua revisione finale. Luca probabilmente scrisse conoscendo l’opera di Matteo (un testimone oculare fin dall’inizio) e di Marco (un ministro della parola), come risultato di aver seguito a lungo le parole e i fatti di Gesù. Egli ha seguito l’ordine di Marco, con alcune omissioni e un gran numero di aggiunte, ma mantenendo la sua normale formulazione delle parole. Fece anche alcune piccole aggiunte prese da Matteo» (p. 198).

Nessuna “fonte Q”, singola o plurima, per spiegare il fenomeno sinottico, ma due constatazioni storiche. La prima riguarda il fatto che non esisteva quella consuetudine che noi oggi abbiamo, di scrivere un testo, avendo a disposizione sul nostro tavolo diversi volumi per la diretta consultazione e copiatura. Anzi, non esistevano neppure dei tavoli per la scrittura. La consuetudine, come spiega A. Dain, padre della codicologia, citato da Wenham, era la seguente: «La persona è seduta, la sua gamba sinistra piegata; la destra è verticale e il ginocchio sostiene la piccola tavola di scrittura sulla quale scrivere. Con la mano destra traccia i caratteri di scrittura, mentre con la sinistra tiene il foglio di pergamena». La difficoltà di consultare uno o più rotoli è piuttosto evidente; era invece decisamente più semplice che l’autore scrivesse a mo’ di appunti i detti e i fatti di Gesù, appunti provenienti dalla predicazione dei Dodici o dei settanta, per utilizzarli poi per la stessa predicazione, oltre a servirsi non poco della memorizzazione. Da questo materiale proprio, proveniente dalla viva memoria di quanti avevano vissuto con Gesù, oppure di quanti avevano udito i testimoni oculari riferire, per esempio, di un miracolo, gli evangelisti trassero il necessario per la stesura dei Vangeli. Questo non significa che gli evangelisti posteriori (Marco e Luca) non consultassero il o i Vangeli precedenti per integrare il proprio materiale o dargli un ordine.

E così, Wenham concludeva che tutti e tre gli evangelisti avevano del materiale proprio, proveniente dalle proprie fonti di testimoni oculari, e che era oggetto della incessante predicazione della Chiesa primitiva; ciascuno di loro poteva inoltre aver sviluppato degli appunti, derivanti appunto dalla predicazione, come era uso tra l’altro nelle spiegazioni che i rabbini facevano della Torah. Matteo, il quale, data la sua professione, aveva familiarità con la “penna”, e che era inoltre uno dei Dodici, mise per iscritto per primo. Poi venne Marco, che aveva come fonte la predicazione di Pietro a Roma, ma che dimostra anche di conoscere Matteo. Infine Luca, nelle meticolose ricerche da lui esplicitamente dichiarate nel prologo del suo Vangelo, conosceva entrambi i “predecessori” e aveva scelto di seguire l’ordine di Marco, integrando però con abbondante materiale proprio e con alcuni riferimenti presi da Matteo.

Nessuna pretesa di sapere «quanto provenga da una dipendenza letteraria, quanto dalla tradizione orale, quanto dall’assimilazione di una fraseologia di racconti ben conosciuti di eventi simili, quanto da un singolo autore. La posizione più forte è quella di non andare oltre l’evidenza e accontentarci di quanto abbiamo» (p. 213). Niente “fonte Q”.