Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA SENTENZA CEDU

Utero in affitto, strategia europea per il sì

Con la recente sentenza, la Cedu ha benedetto la pratica dell’utero in affitto, non chiedendo di legalizzarlo, ma chiedendo di legalizzarne gli effetti, cioè riconoscere il figlio avuto con tale pratica. Così si avvicina a legalizzare la causa. 

Editoriali 12_04_2019

I coniugi francesi Menesson hanno due bambini tramite la pratica dell’utero in affitto, pratica effettuata in California. Il marito fornisce lo sperma, una donna diversa dalla moglie gli ovociti dietro rimborso spese (espressione che occulta una vera e propria compravendita) e un’altra donna l’utero, sempre dietro “rimborso spese”. In California i due coniugi figurano genitori legali dei bambini, ma non è così per l’ordinamento giuridico francese che non riconosce la filiazione avvenuta per mezzo della maternità surrogata, dato che la stessa non è legale in Francia. Ne nasce un contenzioso che arriva alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu), organo giudiziario che vigila sull’attuazione da parte dei paesi firmatari della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel 2014 la Cedu decide che almeno il sig. Menesson figuri come padre dei bambini nell’anagrafe francese, perché padre biologico.

La coppia torna alla carica perché vuole che anche la moglie del sig. Menesson sia riconosciuta dallo Stato francese come madre dei piccoli a tutti gli effetti. Esaurito tutto l’iter giudiziario interno ecco che la Corte di Cassazione francese chiede un parere nuovamente alla Cedu. Quest’ultima, il 10 aprile scorso, ancora una volta dà parere positivo: che Madame Menesson sia riconosciuta come madre dei bambini.

La motivazione fa perno sull’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione che tutela la vita privata e familiare dei cittadini. Nato come baluardo contro l’ingerenza degli Stati, l’art. 8 è diventato nelle mani della Cedu uno strumento per elevare a diritto qualsiasi desiderio dei cittadini europei. Per la Cedu non riconoscere la “madre intenzionale” (sic) come madre legale è un vulnus alla vita privata dei bambini, perché sarebbe contrario al loro superiore interesse. Tale superiore interesse si sostanzia in due aspetti: diritti giuridici e condizioni sociali.

In merito al primo aspetto la Corte afferma che “il mancato riconoscimento nel diritto interno del rapporto tra il minore e la madre intenzionale è svantaggioso per il bambino, in quanto lo colloca in una posizione di incertezza giuridica riguardo alla sua identità all'interno della società. In particolare, vi è il rischio che a tali bambini venga negato il riconoscimento della nazionalità della madre intenzionale, riconoscimento che tutela la relazione legale genitore-figlio; può essere più difficile per loro rimanere nel Paese di residenza della loro madre intenzionale […]; il loro diritto di ereditare il patrimonio della madre intenzionale può essere compromesso; il rapporto con lei viene messo a rischio se i genitori intenzionali si separano o muore il padre intenzionale; e non hanno protezione se la loro madre intenzionale si rifiuta di prendersi cura di loro o cessa di farlo”.

In merito agli aspetti sociali che verrebbero compromessi dalla mancanza di riconoscimento della filiazione avvenuta tramite maternità surrogata, la Cedu aggiunge che “l'interesse superiore del minore comporta anche l'identificazione giuridica delle persone responsabili di averlo allevato, di aver soddisfatto i suoi bisogni e garantito il suo benessere” e che occorre tutelare “la possibilità per il bambino di vivere e svilupparsi in un ambiente stabile”. E perciò conclude che “la mancanza di riconoscimento di un rapporto giuridico tra un bambino nato attraverso un accordo di maternità surrogata avvenuta all'estero e la madre intenzionale ha quindi un impatto negativo su diversi aspetti del diritto di quel bambino al rispetto della sua vita privata”.

La Cedu però mette in luce un ostacolo: non c’è orientamento condiviso tra tutti i Paesi europei non solo sulla legittimazione della maternità surrogata, ma anche sul riconoscimento della filiazione avvenuta tramite questa sebbene vietata. La Corte ci informa infatti che gli accordi concernenti l’utero in affitto sono legali in nove Stati su 43, tollerati in dieci e illegali nei rimanenti 24. Ciò detto la registrazione del certificato straniero che legittima la filiazione avuta tramite utero in affitto è consentita in sedici dei 19 stati in cui la pratica è legale o tollerata e in sette dei 24 stati in cui la maternità surrogata è vietata. Nei 19 stati dove la pratica è legale o tollerata e in nove stati su 24 dove è vietata si può procedere al riconoscimento della filiazione anche per via giudiziaria. In cinque stati tra quelli che hanno legalizzato l’utero in affitto o che tollerano tale pratica e in dodici tra i 24 che la vietano è legittima anche l’adozione.

Di fronte a questa difformità di disciplina normativa dove non tutti gli stati riconoscono il rapporto di filiazione avvenuta tramite maternità surrogata, la Cedu da una parte ricorda che in tali casi, in linea di principio, sussiste un margine di apprezzamento di ogni Stato relativamente alla decisione se riconoscere o meno la filiazione, ma su altro fronte rammenta che il margine di apprezzamento si comprime assai laddove sono in gioco l’identità e il benessere delle persone e la certezza dei rapporti giuridici. E dunque la Cedu conclude che «Il diritto al rispetto della vita privata […] di un bambino nato all’estero con un accordo di maternità surrogata richiede che la legge preveda la possibilità di riconoscere la relazione legale genitore-figlio con la madre intenzionale, indicata sul certificato di nascita estero come “madre legale”». In sostanza la Corte ci dice se tu Stato non riconosci il rapporto di filiazione tramite la maternità surrogata perché quest’ultima da te è fuori legge, è comunque necessario che ti industri in altro modo per riconoscere tale filiazione.

Rimane allora da stabilire come dare attuazione giuridica a tale riconoscimento. La Corte anche in questo caso annota che, come abbiamo visto, non c’è consenso unanime tra gli Stati europei sul punto. Però aggiunge che “il diritto del bambino al rispetto della vita privata ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione non richiede che tale riconoscimento assuma la forma di iscrizione nel registro delle nascite […] degli estremi del certificato di nascita legalmente prodotto all'estero; un altro mezzo, come l'adozione del bambino da parte della madre intenzionale, può essere utilizzato a condizione che la procedura stabilita dalla legislazione nazionale garantisca che possa essere attuata tempestivamente ed efficacemente, nel rispetto dell'interesse superiore del bambino”. In breve: se dici no alla registrazione della donna come madre legale – come se fosse lei ad averlo partorito e poi riconosciuto – che almeno si proceda in fretta all’adozione.

A margine di questo parere della Cedu un paio di domande. Questo parere è vincolante anche per l’Italia? Innanzitutto relativamente all’ordinamento nazionale interessato dal parere, i giudici della Cedu specificano che “la Corte non ha giurisdizione né per valutare i fatti di una causa né per valutare il merito delle opinioni delle parti sull'interpretazione del diritto nazionale alla luce della Convenzione, o per decidere sull'esito del procedimento. Il suo ruolo è limitato a fornire un parere in relazione alle domande che le vengono sottoposte”. Dunque un parere consultivo e non vincolante. Dato che la Francia ha sottoscritto la Convenzione rimane però il fatto che, nei margini di apprezzamento dei giudici nazionali, questi comunque si devono conformare all’orientamento indicato dalla Cedu. In merito poi agli altri Paesi firmatari della Convenzione l’influsso di questi pareri sono in modo significativo incidenti in ambito giuridico e legale almeno per tre motivi. Sotto il profilo politico questi pronunciamenti si sostanziano in una moral suasion sugli organi giudiziari e legislativi. In breve il messaggio che passa è: “Ce lo chiede l’Europa” (sebbene la Cedu non sia organismo UE). Le decisioni della Cedu quindi funzionano come strumento di pressione psicologica sugli orientamenti politici nazionali. In secondo luogo tali pronunce vengono sempre più richiamate dalla giurisprudenza nazionale, compresa quella italiana. In terzo luogo la Cedu, come altri organismi europei, cesellano sempre nuove categorie giuridiche – si veda la recente e inedita figura dei “genitori intenzionali” e nel passato espressioni come “salute sessuale e riproduttiva” e “discriminazioni di genere” – che entrano prima nel lessico politico nazionale, poi in quello giuridico e infine in quello parlamentare.

Seconda domanda: la Cedu ha quindi benedetto la pratica dell’utero in affitto? La Corte non ha chiesto di legalizzare l’utero in affitto, però chiedendo di legalizzarne gli effetti – riconoscere il figlio avuto con tale pratica - si avvicina a legalizzare la causa. In altre parole il passo è breve e quasi necessario: se si riconoscono come giuridicamente validi alcuni effetti della maternità surrogata non si comprende il motivo per non riconoscere la maternità surrogata in quanto tale.