Usa, come il politically correct divora la libertà
Spostare la statua di Colombo a New York? Non fino a questo punto: ma scrivere una contro-storia sul piedistallo a mo' di scusa. Per uno schiaffo alla moglie, si rischia anche la galera. E nel mondo dello spettacolo basta un sospetto per distruggere una carriera.
È uno dei simboli di New York, un tributo all’uomo che, per primo, ha reso possibile la nascita del sogno americano. A vedere la statua di Cristoforo Colombo al Columbus Circle, incastonata fra i grattacieli più alti e sorprendenti della City, fa un po’ specie pensare che qualcuno abbia pensato di rimuoverla. E non un signor nessuno, bensì Bill De Blasio che due mesi fa è stato rieletto sindaco con più del doppio dei voti di un’inesistente avversaria repubblicana. Tutto è nato in seguito alle polemiche scoppiate la scorsa estate a Charlottesville (Virginia) sulle statue dei generali confederati Robert E. Lee e Thomas "Stonewall" Jackson, coperte con un telo nero. Per non essere da meno De Blasio ha deciso di creare una commissione per valutare l’opportunità di tenere alcune statue “controverse” a Manhattan o spostarle in zone meno turistiche.
Così fra i monumenti finiti sotto la lente d’ingrandimento è finito anche quello dedicato all’esploratore genovese, accusato di essere “collegato al genocidio delle popolazioni native e alla nascita dello schiavismo”. Accuse, peraltro infondate, che – come riporta il New York Post del 12 gennaio - gli sono valse un “marchio d’infamia” assieme alle statue di altri tre protagonisti della storia americana ed europea: quella del presidente Theodore Roosevelt al Museo di Storia Naturale, raffigurato a cavallo a fianco di un indiano a piedi (sarebbe un simbolo di sottomissione), quella del medico J. Marion Sims (padre della moderna ginecologia, che avrebbe però sperimentato su donne nere senza anestesia) e una targa nella lower Broadway dedicata al maresciallo francese Philippe Pétain, collaborazionista del regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.
L’indicazione finale della commissione, arrivata pochi giorni fa, è stata quella di spostare solo la statua di Sims (verrà ricollocata al cimitero di Green-Wood a Brooklyn dove è sepolto), e lasciare al proprio posto le statue di Colombo (per la quale c’è stata una vera e propria sollevazione della comunità italiana), di Roosevelt e la targa di Pétain, corredandole però di un pannello esplicativo che illustri la “contro-storia” di questi personaggi. Inoltre De Blasio ha promesso di stanziare 10 milioni di dollari per creare monumenti dedicati a “popolazioni sotto-rappresentate” fra cui spiccherà una grande opera dedicata ai nativi d’America per bilanciare – riporta il Post del 13 gennaio – proprio la statua di Colombo. Di questi 250mila dollari saranno destinati alla revisione (attraverso cartelli illustrativi o spostamenti, per ora non si è parlato di interventi di modifica delle strutture) delle statue presenti, ha detto De Blasio.
Al di là della valutazione storica dei personaggi, ciò che davvero sorprende è sempre più ingombrante dominio del politically correct nella società americana. Lo vedi in metropolitana quando t’imbatti nei cartelloni della città di New York contro la violenza sulle donne che dipingono gli uomini come stupratori; lo vedi in alcune signore di Manhattan che hanno abbandonato la Louis Vuitton in favore di orribili borse di juta con la scritta “this bag is gender neutral”, perché anche le borsette sono strumento di discriminazione sessuale. “Qui non è come in Italia, c’è la parità fra i sessi: se una donna prende anche solo una sberla dal marito chiama la polizia e gli fa fare tre notti in galera”, mi ha detto una persona che vive da quarant’anni negli Stati Uniti. Bene, se serve a reprimere davvero la violenza domestica. Male, se finisce col diventare un modo per crocifiggere persone a seguito di un unico episodio non verificato.
Eppure basta aprire i giornali per vedere, quasi ogni giorno, il volto di qualche personaggio famoso sbattuto in pagina con l’accusa di molestie. E non solo l’onnipresente Harvey Weinstein (sì ancora oggi, a due mesi dalla denuncia pubblica di Asia Argento) ma anche l’attore James Franco, che qualche giorno fa è dovuto intervenire nella trasmissione di Seth Meyers per discolparsi di accuse di “comportamento sessuale inappropriato”. Il professore della Syracuse University Robert Thompson – riporta il Post – si è addirittura messo a stilare una lista di popolari film serie televisive del passato, fra cui spicca una scena di M*A*S*H, in cui ci sono scene di molestie o avances troppo marcate. Un tempo facevano ridere – ha fatto notare il professore – oggi suscitano imbarazzo e preoccupazione.
Insomma gli Stati Uniti si mostrano sempre più come un paese degli eccessi, in cui il politically correct rischia di corrompere una grande tradizione di libertà di parola. E non sorprende che la figura di spicco di questo movimento perbenista non istituzionalizzato – che va dal femminismo di #Metoo, alle associazioni gay militanti fino alle fondazioni in difesa della racial equity – sia la star Oprah Winfrey che in occasione della notte dei Golden Globe ha pronunciato un discorso tutto focalizzato sulla violenza di genere. Un discorso che ha mandato in visibilio l’intellighenzia americana, New York Times in primis, che l’ha subito eletta ad avversaria di Trump nelle elezioni del 2020. Proprio lei che oltre vent’anni fa è stata protagonista di un’altra caccia alle streghe, in quel caso contro presunti pedofili. Lo ha ricordato di recente Veleno (ma ne avevamo parlato anche sulla Bussola), l’ottima inchiesta di Pablo Trincia su Repubblica, che ha riaperto il drammatico caso dei genitori di Massa Finalese e Mirandola cui sono stati sottratti i figli a seguito di testimonianze fantasiose dei bambini, indotte da psicologi e assistenti sociali. Come ha ricordato Trincia in una puntata, simili inchieste c’erano state anche negli Stati Uniti ed erano state proprio cavalcate dalla Winfrey, già ai tempi molto nota in tv. Quando si dice che il lupo perde il pelo ma non il vizio.