UniCredit scala Bpm e ha diritto di farlo. Il governo pensi al bene dei clienti
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Opposizione da parte della Lega alla scalata di UniCredit a Bpm che manderebbe in fumo il progetto governativo di un terzo polo bancario. Il ministro Giorgetti difende l'"interesse nazionale", che però non coincide con quello dei clienti.
Il governo italiano sta contestando l’offerta del colosso bancario UniCredit, comunicata lunedì 25 novembre dall’ad Andrea Orcel, volta ad acquisire la totalità delle azioni di Banco BPM, perché si tratta di un’operazione «comunicata ma non concordata col governo», per cui «il governo farà le sue valutazioni, valuterà attentamente quando UniCredit invierà la sua proposta per le autorizzazioni del caso». Il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, ha evocato il possibile utilizzo del cosiddetto “Golden Power”, uno strumento normativo che permette al Governo di bloccare o apporre particolari condizioni a specifiche operazioni finanziarie, che coinvolgano settori strategici e quindi siano considerate di interesse nazionale.
Oltre a Giorgetti, anche il Vice Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini, ha duramente criticato l’operazione che coinvolge come società offerente UniCredit, da lui qualificata come «una banca straniera», auspicando l’intervento di Banca d’Italia. Salvini paventa il rischio di eccessive concentrazioni e il tramonto dell’ipotizzato “terzo polo”, cioè un terzo gruppo italiano che possa essere in grado di competere con le grandi Intesa e UniCredit. L’esecutivo punterebbe infatti a promuovere un’alleanza tra Banco BPM-Anima SGR e Banca Monte dei Paschi di Siena, ancora per l’11% di proprietà del Tesoro.
UniCredit, nel sito istituzionale, si definisce come una «banca commerciale pan-europea», che serve «oltre 15 milioni di clienti»: si tratta quindi di una public company, «controllata per oltre l'85% da investitori professionali, di cui la maggioranza è ubicata fuori dall'Italia. La banca non ha un azionista o un gruppo di azionisti di maggioranza, così come non è presente un patto di sindacato o qualsiasi forma di patto di consultazione». L’investitore più grande è il Gruppo BlackRock, che possiede circa il 7% del pacchetto azionario di UniCredit, a titolo però di «gestione non discrezionale del risparmio». Anche se l’azionariato in grandissima parte non è italiano, andrebbe precisato che UniCredit ha sede legale e paga le imposte in Italia, dove ha oltre il 40% dei suoi dipendenti e il grosso delle sue attività. Sulla presunta “italianità” di BPM ci sarebbe poi da obiettare che anch’essa è partecipata da soggetti esteri, a partire da Crédit Agricole al 9%, e nuovamente da BlackRock al 5%. Sia UniCredit sia BPM sono banche di rilevanza sistemica nazionale, e come tali non soggette al controllo di Banca d’Italia, come lascia intendere Salvini, bensì alla vigilanza prudenziale diretta della BCE (Banca Centrale Europea), chiamata a garantire che tali operazioni siano conformi alle normative europee e non solo a quelle italiane. Non si capisce quindi perché un’operazione di questa natura andrebbe «concordata col governo», come vorrebbe il ministro dell’economia.
L’operazione lanciata dall’ad Orcel si qualifica come una “OPS”, cioè un’Offerta Pubblica di Scambio volontaria, sulla totalità delle azioni di BPM, per un controvalore di circa 10 miliardi di euro: si tratterebbe di uno “scambio di carta a mezzo carta”, cioè della sostituzione di azioni BPM con azioni UniCredit. Come da regolamento Consob, l'Offerta, una volta promossa, è irrevocabile ed è rivolta a parità di condizioni a tutti coloro che detengono i titoli che l'Offerente dichiara di volere acquistare. Gli azionisti di BPM dovranno quindi valutare se ritengono convincente oppure no la proposta di UniCredit. Il Consiglio di Amministrazione di BPM, nella seduta del 26 novembre, ha giudicato “ostile” l’OPS, com’è di prassi in presenza di operazioni non previamente concordate. Il valore del pacchetto di azioni UniCredit offerto in cambio è giudicato inadeguato da parte del CdA di BPM, perché non prevede alcun “premio” rispetto alle quotazioni correnti di borsa e non rispecchierebbe in alcun modo la redditività e l’ulteriore potenziale di creazione di valore per gli azionisti della banca.
Se l’operazione andasse a buon fine, UniCredit diventerebbe la terza banca europea per capitalizzazione di mercato, senza dimenticare, peraltro, che rimane aperta anche l’importante partita della scalata su Commerzbank. Soltanto a settembre, infatti, UniCredit aveva presentato istanza regolamentare, con parere favorevole della BCE, per l’acquisizione di una partecipazione superiore al 10% e fino al 29.9% nella banca tedesca (al momento ha raggiunto il 21%): l’obiettivo è quello di rafforzare la sua presenza in Germania, ma il governo tedesco, azionista della banca, non vede di buon occhio il controllo di Commerzbank da parte di una banca estera. Le trattative riprenderanno dopo le elezioni anticipate in Germania a fine febbraio 2025, dove si prospetta la vittoria di Friedrich Merz, leader della coalizione di centro-destra, che è invece favorevole all’operazione: UniCredit non può metterla a rischio esponendosi troppo sul piano finanziario per l’acquisizione di BPM, anche se formalmente le due partite sono indipendenti.
Se l’OPS su BPM andasse a buon fine sfumerebbe definitivamente l’ipotesi di creazione del cosiddetto “terzo polo” bancario, un progetto fortemente voluto dal governo, in particolare dalla Lega. Ora, è difficile esprimere un giudizio definitivo senza conoscere tutti gli elementi: quello che si può dire, in linea di principio, è che non spetta al governo interferire in operazioni bancarie. Più che di “interesse nazionale” sarebbe opportuno pensare all’“interesse dei clienti”, e non è detto che questo sia meglio tutelato da banche nazionali piuttosto che da grandi gruppi di dimensione europea. Per di più, al di là di come si distribuiscano i pacchetti azionari in base alla nazionalità dei soci, la vera criticità del sistema bancario, non solo europeo, riguarda la produzione di denaro fiat ex-nihilo da parte del sistema di banche commerciali a riserva frazionaria: un processo strutturalmente inflazionistico, che svilisce il potere d’acquisto del denaro producendo trasferimenti di reddito e ricchezza, in una progressiva finanziarizzazione dell’economia che genera bolle e amplifica i cicli economici, come abbiamo visto negli ultimi tre anni.
Il “protezionismo” politico, apparentemente volto a tutelare le banche del Paese, potrebbe rivelarsi nei fatti lesivo della concorrenza, e quindi ultimamente danneggiare i clienti. Sotto questo aspetto, comunque, l’atteggiamento della politica, volto a mantenere il controllo, è simile nei vari Paesi, che si tratti di Italia, Francia o Germania. La ricerca di economie di scala e di scopo, per accrescere cioè l’efficienza e aumentare la gamma di prodotti e servizi offerti alla clientela, spinge invece in direzione contraria: data la forte internazionalizzazione dei mercati finanziari, la crescente rilevanza della tecnologia e dell’informatica e la necessità di proteggere dati sensibili e sicurezza dei clienti – che richiede ingenti investimenti – è inevitabile la tendenza al consolidamento, anche oltre le frontiere nazionali. La verosimile contrazione del margine di interesse nel prossimo futuro comporterà per le banche una sensibile riduzione di quegli extra-profitti di cui, grazie al rialzo dei tassi BCE, avevano beneficiato nei due anni passati: un motivo in più per ricercare efficienza e puntare maggiormente sui ricavi da servizi. Il processo di consolidamento in atto non riguarda solo il settore finanziario ma si estenderà verosimilmente anche a molti altri comparti strategici, come l’energia e le telecomunicazioni, come già accaduto per il settore automobilistico.
Se l’interesse del grande pubblico fosse davvero al primo posto, andrebbe evitata ogni indebita intromissione di veti da parte del potere politico in prospettiva dirigistica e di controllo, per evitare logiche clientelari che falsificherebbero l’efficiente allocazione degli investimenti, a danno ultimamente degli utenti finali dei servizi.