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l'intervista / Roman Marabian

Un medico in guerra: la luce di Cristo tra le bombe in Ucraina

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Dai bambini malati in ospedale agli orrori del conflitto. Ma persino al fronte l'ufficiale e capo del servizio medico a Charkiv ha sperimentato la presenza e l'amore di Dio, e lo testimonia a La Bussola: «Se noi siamo rimasti in vita è solo grazie a Lui che ci custodiva».

Esteri 01_09_2025 English Español

Palazzi sventrati, parchi giochi colpiti dalle bombe, corpi brutalmente mutilati, morti e feriti tra le macerie abbandonate. È lo scenario desolante della «guerra insensata», per dirla con Leone XIV, tuttora in corso tra Russia e Ucraina. Una guerra da cui ciascuno prontamente vorrebbe distogliere lo sguardo per non finire irretito in tanto dolore. Perché la guerra che si combatte sul campo non è quella delle immagini televisive, non è riconducibile a una mappa asettica con territori conquistati, sottratti al nemico o ancora contesi, ma è il dramma reale di persone comuni. Sono volti e nomi di uomini e di donne, anziani, malati e bambini che gridano il dolore che vivono sulla propria pelle. Sono testimonianze dirette di madri, medici, soldati, insegnanti, anziani, intellettuali, imprenditori e sacerdoti quelle che si possono ascoltare e leggere al Meeting di Rimini lungo i pannelli espositivi della mostra …Ma sono vivo, il cui catalogo Custodire l’umano. Voci dall’Ucraina (Itaca, pp. 254) è stato realizzato con la collaborazione dell’Associazione Amici di Emmaus che da diversi anni si prende cura di tanti ragazzi ucraini orfani e disabili. Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi, recita il tema della 46a edizione del Meeting di Rimini. Nel caso di specie il "mattone nuovo" è pertanto uno sguardo che si lascia coinvolgere, che non resta spettatore, ma profonde tutte le sue energie per custodire l’umano in mezzo alla barbarie e alla violenza più truce, prendendosi cura del fratello nella prova e nel dolore più atroce.

Ascoltando le loro voci, si vede con orrore l’abisso del male, ma anche la possibilità di opporsi a esso; di continuare a vivere, costruire, educare e amare, di assumersi la responsabilità del presente per assicurare un futuro ai propri figli e al proprio popolo. «Dopo i bombardamenti, accogliere il mattino, essere vivi, è già un dono. Le persone vivono la vita come un regalo e la prendono sul serio. Non ci si sente stanchi della vita, non si è sazi del bene: si capisce che il bene è qualcosa che va conquistato con decisione», dice Tetiana Oharkova, docente universitaria e madre di tre figli che in questi anni continua a spendersi insieme al marito nel «portare aiuti umanitari e organizzare raccolte fondi per acquistare macchine e veicoli necessari ai civili; consegnando libri, insegnando e incontrando la gente comune». La stessa afferma infatti che, in tempo di guerra, «restare a lavorare in una biblioteca per bambini a Kherson è un atto eroico».

Restare, resistere e continuare ad agire, anzitutto come operatori di pace. Come padre Vitalii Novak, sacerdote della Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli che a luglio 2024 è diventato cappellano militare nelle Forze Armate Ucraine ed attualmente al fronte, il quale così racconta gli inizi della guerra: «Avevamo tre cose chiare, le questioni più importanti: la preghiera, innanzitutto, poi togliere i cellulari, perché avere sempre certe notizie davanti agli occhi era come sottoporre la mente a continui bombardamenti, e, terzo, comunicare». E prosegue: «Ci sono momenti in cui possiamo aiutare in qualcosa, ma ci sono momenti in cui si pone la domanda: “Sei pronto a dare ciò che hai di più caro?”. Il cappellano è un soldato senza armi, che è sempre accanto ai ragazzi. Non ho mai pregato tanto quanto ora. Quando partono per una missione mi dicono: “Noi andiamo, padre, prega per noi, crediamo solo nel miracolo della preghiera”. E quando tornano dalle postazioni la prima cosa che riferiscono è: “Grazie, la preghiera ci ha salvati”. Ovunque io sia, ho sempre una chiesa su ruote, come la chiamano: “Padre, andiamo alla chiesa su ruote”».

Padre Novak è sempre pronto a sostenerli spiritualmente, li incontra individualmente; visita le vedove, le famiglie rimaste senza uomini, i cimiteri e onora i caduti. Celebra anche il funerale dei loro compagni, che è sicuramente il momento più doloroso per i soldati e l’intera comunità. Egli testimonia però anche «la velocità con cui la vita si rigenera, non appena cessano le ostilità» e come, nei villaggi liberati, si cominci a ricostruire e si torni a coltivare. Infatti, racconta ancora, che «la gente dice: “Fateci solo tornare al nostro campo. Non chiediamo altro: ci nutrivamo da soli e aiutavamo anche gli altri”».
La pace si costruisce dunque soprattutto facendo ciascuno bene e con amore il proprio compito, come racconta infine in esclusiva nella propria lingua ucraina a La Nuova Bussola Roman Marabian, ufficiale e capo del servizio medico a Charkiv che si è arruolato all’inizio dell’invasione russa e che recentemente ha dovuto abbandonare il fronte per raggiunti limiti d’età.

Dottor Roman Marabian, cosa ha comportato per Lei essere medico in guerra?
Sono stato per tanti anni medico nel reparto dei bambini con forme gravi di malattia, quindi passare al fronte militare per me non è stato un grande cambiamento. Sapevo benissimo cosa sono la sofferenza e la morte; per me non è stata una cosa nuova. Al fronte sono stato medico di primo soccorso.

Può raccontarci un intervento particolarmente critico realizzato sul campo in condizioni di emergenza?
Il mio lavoro quotidiano consisteva nel trasportare in sicurezza e far uscire dal fronte coloro che erano feriti gravemente. Facevo parte della divisione che doveva liberare la città di Kupiansk nella regione di Charkiv. Quando siamo arrivati il mio compito fondamentale era di realizzare un ospedale provvisorio al secondo piano di un palazzo. Però il mio intuito mi ha suggerito che sarebbe stato meglio allestirlo al primo piano. Alla fine ho assecondato tale idea, disobbedendo in qualche modo a quello che ci avevano proposto. Avevamo appena allestito la sala operatoria e, dopo solo tre ore, i russi hanno lanciato tre missili C300 distruggendo completamente il secondo piano: sono morti tutti quelli che vi erano dentro. Ormai quel giorno, il 10 ottobre 2022, è per noi come una data di compleanno. Abbiamo già festeggiato il secondo compleanno! Umanamente è impossibile da sopportare sul piano emotivo la quantità di feriti e di morti che noi vedevamo al fronte, per cui l’unico modo era di fare il nostro lavoro di medici come una routine e con un certo distacco emotivo.

Dove ha riconosciuto maggiormente la luce di Cristo nelle tenebre della guerra?
La presenza di Cristo la sentivo continuamente con me. Potevo solo affidare l’opera che facevamo a Gesù. Comprendo che se noi siamo rimasti in vita è solo grazie a Lui che ci custodiva. Io ero poi il più grande, sia dal punto di vista dell’età che del grado, per cui avevo anche la responsabilità degli altri medici più giovani sulle spalle. Nessuno di loro è morto. Certo alcuni sono stati feriti, però tutti sono vivi, sebbene operassimo nelle zone più pericolose e costantemente sotto i bombardamenti. Vedendo la croce dell’autoambulanza, i russi miravano proprio a noi, perciò abbiamo ricolorato tali auto destinate al primo soccorso in verde proprio per camuffarle. Alcune sono state colpite, eppure noi che vi eravamo dentro siamo rimasti in vita. Come spiegare questo se non con il fatto che il Signore ascolta le nostre preghiere? Un’altra cosa: anche quando ci siamo ritrovati a operare in luoghi abbandonati e in condizioni difficili, rispondendo alle nostre preghiere, il Padre ci mandava le persone giuste ad aiutarci: chi metteva a disposizione l’auto, chi ci portava le medicine. Insomma l’aiuto delle persone è stato un segno tangibile che Dio sentiva il nostro bisogno e ci ha dato di sperimentare i segni del suo Amore.