L'Occidente climatista, alla Cop30, si trova superato dalla storia
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L’accordo raggiunto durante la Cop30 giunta alla sua trentesima edizione, è definito “deludente” dai governi europei e dal Brasile. Perché la causa climatista si fonda su premesse superate: il futuro delle emissioni non si decide più in Europa.
L’accordo raggiunto durante la Cop30, la trentesima Conferenza annuale sul clima delle Nazioni Unite, è definito “deludente” dai governi europei e dal Brasile stesso che l’ha ospitata. Il presidente Ignacio Lula da Silva ha scelto la città di Belém, nell’Amazzonia, quale migliore location per discutere di clima, di cambiamenti climatici e di sfruttamento dell’ambiente.
L’Amazzonia, polmone verde, simbolo delle prime cause ecologiste, ha però riservato dure sorprese ai delegati giunti da tutto il mondo: già il primo giorno una pioggia tropicale fortissima è filtrata fin dentro i capannoni in cui erano ospitati gli incontri. Il rumore era talmente assordante da costringere i presenti a interrompere i lavori. Alla fine dei lavori, il penultimo giorno, un incendio scoppiato per un incidente (un forno a microonde andato in cortocircuito, stando alle ricostruzioni) ha costretto ad un’altra interruzione dei lavori. Il mondo che brucia, oggetto dei dibattiti fra i delegati era lì rappresentato in modo plastico, causato da un corto di apparecchi elettrici alimentati da energia prodotta da impianti a gasolio in una conferenza che aveva, quale obiettivo principale, l’abolizione dei combustibili fossili.
L’obiettivo di Lula era quello di giungere alla definizione di una road map per la loro eliminazione. Si è scontrato con la resistenza durissima di paesi che, con i combustibili fossili, ci vivono. I principali produttori di petrolio, Arabia Saudita e Russia, e decine di paesi in via di sviluppo si sono opposti, sostenendo che non erano in grado di ridurre i combustibili fossili mentre molti dei loro cittadini non hanno accesso all’elettricità.
«Non sosterremo alcuna risposta all'attuazione dei cambiamenti climatici che porterebbe a una nostra improvvisa contrazione economica e a una maggiore instabilità sociale», ha dichiarato un rappresentante nigeriano durante l’incontro. «Noi decidiamo la politica energetica nella nostra capitale, non nella vostra», ha detto il delegato saudita in una riunione a porte chiuse, secondo un osservatore.
In compenso è stato approvato il programma per triplicare i fondi destinati ai paesi più poveri, per aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti climatici. Il costo sarà sostenuto soprattutto dagli europei e dagli altri paesi Ocse che vorranno continuare a sostenere il progetto. L’idea di triplicare i fondi per l’adattamento climatico “entro il 2035” era presente nella bozza iniziale ed è rimasta nella bozza finale.
Le nazioni presenti hanno inoltre concordato di avviare (in futuro) discussioni sulle questioni commerciali legate al clima nei prossimi tre anni, in un momento in cui i dazi doganali stanno ostacolando la vendita di pannelli solari e veicoli elettrici, anche se i cambiamenti di regole sono repentini e non è chiaro in che modo le future disposizioni commerciali potrebbero influenzare la diffusione dell’energia pulita in tutto il mondo.
«Avremmo voluto ottenere di più», ha affermato il commissario europeo per il clima Wopke Hoekstra. «Il cambiamento climatico richiede più impegno, più azione», dice, esprimendo tutta la frustrazione per l’insuccesso dell’Ue. I nostri paesi si trovano, infatti, a dover pagare per l’adattamento climatico delle nazioni più povere, ma i nostri governi non sono riusciti a far passare la loro richiesta principale, che era quella, appunto, dell’eliminazione dei combustibili fossili.
Il professor Bjorn Lomborg, “l’ambientalista scettico”, è convinto che i risultati della Cop30 ricalchino i nuovi rapporti di forza in ambito energetico: «I leader di Europa, Australia e Canada, che fanno promesse sempre più grandi sul clima con una retorica sempre più vuota, ignorano la realtà cruciale che le azioni occidentali non sono più fondamentali per risolvere il cambiamento climatico», scrive Lomborg nel suo ultimo editoriale sul New York Post. Constatando che anche l’accordo di Parigi del 2015 non ha portato alcun miglioramento: le emissioni globali, nonostante il crollo durante il biennio pandemico (2020-21), hanno raggiunto un nuovo record nel 2024.
«Mentre in passato l’Occidente dominava le emissioni di carbonio – scrive Lomborg - in futuro queste proverranno in gran parte dalla Cina, dall'India, dall'Africa, dal Brasile, dall'Indonesia e da altri paesi che stanno uscendo dalla povertà. Uno scenario recente mostra che, con le politiche attuali, solo il 13% delle emissioni di CO2 per il resto di questo secolo proverrà dai paesi dell'OCSE». E i paesi più poveri «non intendono emulare il debito climatico della Germania, i blackout verdi della Spagna o i prezzi record dell'elettricità del Regno Unito».
Alla resistenza dei paesi produttori di combustibili fossili e di quelli in via di sviluppo, si somma l’assenza ingombrante degli Usa di Trump. La sua amministrazione sta lavorando al ritiro dagli accordi di Parigi e non ha inviato neppure un delegato. Non è solo una scelta legata a Donald Trump e alle sue idee, è un cambiamento di rotta generale degli Stati Uniti. Anche governatori democratici stanno facendo marcia indietro. Come Kathy Hochul, dello Stato di New York, che ha approvato un progetto di gasdotto, con buona pace degli ecologisti del suo Stato. O Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania, che ha abbandonato un programma “cap-and-tax” volto ad aumentare deliberatamente il costo delle centrali a combustibile fossile. D’altronde, se anche lo stesso filantropo ecologista Bill Gates dice che il clima non è poi questa grande emergenza, vuol dire che siamo a un cambio di paradigma anche negli Usa. Sono solo gli europei che rischiano di trovarsi col cerino in mano.

