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medio oriente

In Cisgiordania si continua a morire. Qual è la strategia di Israele?

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Non c’è pace per quel lembo di terra già distrutto dalle bombe. Perché questi attacchi? Si tratta di una strategia politico-militare per mettere alla prova i mediatori? Oppure è un chiaro disegno per costringere la popolazione ad abbandonare “volontariamente” la sua terra?

Esteri 24_11_2025

Un cessate il fuoco sottoscritto, su appena due fogli, da Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia. Una tregua annunciata, ma mai realizzata. Infatti, a Gaza si continua a morire sotto il fuoco dell’esercito israeliano. Secondo alcuni dati forniti dall’Unicef, dall’inizio della tregua a sabato 22 novembre, sono stati uccisi sessantasette bambini, per la sola colpa di essere palestinesi, nati nella Striscia.

Lo scorso sabato, una violenta incursione aerea, sostenuta dall’artiglieria pesante, ha bombardato, ancora una volta Khan Younis e la parte orientale di Deir el-Balah e l'area di Tuffah. Ma anche Gaza City è stata bersagliata pesantemente. Mentre la situazione peggiora e diventa sempre più invivibile, il governo guidato da Benyamin Netanyahu non intende far tacere le armi, come previsto dal cessate il fuoco. E quello che è ancora più grave è che continua ad ostacolare l’entrata di aiuti umanitari e forniture mediche, disperatamente necessari nell'enclave devastata, come previsto dall’accordo.

Non c’è pace per quel lembo di terra già distrutto dalle bombe. Perché questi attacchi? Si tratta di una strategia politico-militare per mettere alla prova i mediatori? Oppure è un chiaro disegno per costringere la popolazione ad abbandonare “volontariamente” la  sua terra, rendendo la vita invivibile agli abitanti di quella lingua di terra?

Il governo Netanyahu prosegue nelle sue mire espansionistiche. Secondo il Ministero degli Interni di Gaza e di altre fonti governative, Israele avrebbe spostato la linea gialla di demarcazione tra Hamas e il territorio della Striscia controllato dagli israeliani verso ovest e, in alcuni settori, espandendo l'area sotto il controllo ebraico di ben trecento metri. Una nuova ed evidente violazione del cessate il fuoco, senza che i mediatori siano intervenuti per impedire questa decisione israeliana.

Mossa, naturalmente, smentita dal portavoce dell’Idf, ma che ha già sortito i primi risultati: molti residenti, in particolare gli abitanti del quartiere di Al-Tuffah, hanno abbandonato le loro case. Ogni modifica dei confini, anche minima, porta ad un esodo “volontario” di massa. È evidente che queste azioni sono la cartina di tornasole per misurare la validità dell’accordo e valutare il grado di sopportazione dei residenti di Gaza e dei mediatori. Israele è impegnato, nonostante tutto, a rafforzare il territorio sotto il suo controllo, a spostare i confini per ampliare la zona di sicurezza, in particolare nella parte centrale di Gaza e nella zona orientale di Gaza City, con la scusante, appunto, della sicurezza.

Se a Gaza la violazione della tregua sta passando sotto silenzio, il primo ministro Benjamin Netanyahu sta cercando, in tutti i modi, di sminuire ciò che sta accadendo in Cisgiordania, dove i protagonisti assoluti sono gli ebrei ultranazionalisti che scorrazzano, da un villaggio all’altro, seminando distruzione e devastazione. «È un piccolo gruppo di ebrei estremisti che sta compiendo dei disordini, nel il tentativo di farsi giustizia da sé, ma che non rappresenta i residenti della Giudea e della Samaria. Pretendo dalle autorità preposte -  ha dichiarato Netanyahu -  di trattare i rivoltosi con il massimo rigore previsto dalla legge». Non erano passate neanche due ore da questa dichiarazione che i coloni hanno preso di mira sia Ramallah, la capitale dell’Autorità Nazionale Palestinese, che il villaggio di Taybeh abitato interamente da cristiani. I coloni avrebbero dato fuoco a quattro edifici residenziali in un villaggio vicino a Salfit, a nord di Gerusalemme.

Arrivano in auto, poi si sparpagliano a piedi in gruppi organizzati. Molti di loro portano armi sia a canna corta che lunga, fornite dall’esercito. Si danno ad atti vandalici con una violenza impregnata di odio e livore. Prendono di mira anche le parrocchie, oltre a distruggere e incendiare le auto parcheggiate lungo la strada. Durante le loro scorribande lanciano messaggi intimidatori. Appiccare il fuoco alle abitazioni dei palestinesi è un’azione messa in pratica dai coloni ormai da qualche anno. Nel passato, in modo segreto, oggi è una strategia di guerriglia alla luce del sole e coordinata dalle squadre organizzate di questi estremisti, sotto lo sguardo complice e vigile dell’esercito israeliano.

«Negli ultimi giorni il villaggio di Taybeh ha subito una serie di assalti compiuti da gruppi di coloni, che hanno preso di mira proprietà appartenenti ai residenti. L’incidente più significativo riguarda il danneggiamento dell’ingresso di un edificio residenziale, dove gli aggressori hanno frantumato i vetri e alcune parti della facciata, con l’intento evidente di intimidire gli abitanti – ci ha dichiarato il parroco  di Taybeh, Abuna Bashar Fawadleh -. Sono state inoltre vandalizzate due automobili di proprietà di un parrocchiano, con la rottura dei finestrini e danni consistenti alla carrozzeria.

L’attacco  - ha proseguito il parroco - è avvenuto in piena notte, rendendo così difficile l’identificazione dei responsabili, anche se testimoni hanno segnalato, nell’area, la presenza di gruppi di coloni, poco prima degli atti vandalici. Questi episodi s’inseriscono in un quadro di aggressioni ripetute che colpiscono il villaggio, generando crescente preoccupazione e insicurezza tra i residenti. Gli abitanti - ha concluso il parroco - temono il carattere intimidatorio e sistematico, aggravato dall’assenza di un intervento rapido ed efficace da parte delle autorità. La comunità di Taybeh chiede l’apertura di un’indagine seria e misure immediate di protezione per prevenire ulteriori attacchi e garantire la sicurezza del villaggio e dei suoi abitanti».

Ma non è tutto. Ieri mattina, domenica, i soldati con la Stella di Davide hanno sequestrato un trattore che gli agricoltori palestinesi usavano per arare il campo. Il provvedimento è stato adottato dopo che i coloni hanno assalito i coltivatori e sono stati respinti.

Dunque, non «un piccolo gruppo di estremisti», come li ha definiti Netanyahu, bensì bande di coloni ben organizzate e libere di agire, sapendo che i loro crimini rimarranno impuniti. I responsabili non vengono quasi mai arrestati ed Israele si avvantaggia di queste azioni, preludio della cacciata dei palestinesi dalla loro terra, che agevolano di fatto la liberazione del territorio per l’espansione degli insediamenti.

Ormai è evidente che Israele pretende e accampa diritti su tutta la Cisgiordania cancellando unilateralmente, con un colpo di spugna, tutti i precedenti accordi e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Il governo di Netanyahu, in questi giorni, ha emanato un provvedimento, col quale s’intende ampliare un sito archeologico, confiscando d’autorità 180 ettari di terre coltivate palestinesi. Si tratta del più grande sequestro di terreno mai effettuato in Cisgiordania. L’area interessata si trova vicino alla città di Sebastia, nel Governatorato di Nablus, dove vi si coltivano decine di migliaia di ulivi. Israele ha anche in programma l’espropriazione di altri terreni in un’altra località, a Burqa, sempre nella zona di Nablus, per realizzare una strada che condurrà ad un vicino insediamento illegale.

I paesi arabi reagiscono a queste operazioni con la condanna delle incursioni dei coloni e della politica israeliana dei nuovi insediamenti, considerandole una minaccia alla sovranità palestinese e alla stabilità regionale. La Lega araba, nel frattempo, ha anche promosso numerose risoluzioni e iniziative diplomatiche, chiedendo il rispetto del diritto internazionale e il sostegno alle comunità palestinesi, appelli che però non fermano l’accelerazione di questo progetto di espansione d’Israele.