Un genio in cerca dell'unità perduta
L'autore siciliano ha espresso estro artistico e genialità nei romanzi e nelle novelle, ma la sua vena più autentica è quella teatrale.
Che cosa ha capito la critica letteraria su Pirandello? Come si studia a scuola uno scrittore che è stato poeta, drammaturgo, romanziere, novelliere, saggista e grande filosofo? Che cosa si legge di solito? Un articolo dell’Agrigentino datato 15 dicembre 1931 ci può aiutare a introdurci alla lettura delle sue opere scevri di pregiudizi e di banali riduzioni.
L’autore siciliano si scaglia con rabbia contro quanti hanno semplificato la sua produzione e la magmatica e voluminosa novità dei suoi testi a pochi concetti, a parole chiave, a definizioni come «pirandellismo», «personaggio» e «persona» che compaiono per lo più sulle antologie scolastiche e sui saggi a lui dedicati. Per questo Pirandello si ribella e grida «Abbasso al pirandellismo!». Ancora scrive: «Mi si permetta di dire che nessuna delle mie opere che sono tutte nate al di fuori della tesi e degli apriorismi filosofici è malata di pirandellismo. […] A nome della mia opera tutta intiera, … mi ribello contro la mia fama e contro il pirandellismo e arrivo fino a dichiarare di essere pronto a rinunciare al mio nome, pur di riconquistare la libertà della mia immaginazione di scrittore».
Pirandello, infatti, ci avverte: «Forse non esiste scrittore più sconosciuto di uno scrittore celebre!». E come nasce la celebrità? «Nasce il giorno in cui, non si sa come né perché, il nome di uno scrittore si stacca dalle sue opere, mette le ali e spicca il volo. Il nome! ... Le opere sono molto più serie: non volano, ma camminano a piedi, è per conto loro, con il loro peso e il loro valore, a passi lenti».
Così, mentre il nome di Pirandello è a Parigi e ha girato tutto il mondo, le sue opere letterarie «continuano a piedi la loro strada, a passi pesanti, e sono naturalmente rimaste indietro».
Pirandello (1867-1936) è, in realtà, uno dei grandi geni del Novecento, che ha espresso la sua vena artistica e la sua genialità nei romanzi, nelle novelle (raccolte nei 15 tomi di Novelle per un anno) e nel teatro (ben 43 drammi inclusi in Maschere nude), anche se i suoi esordi letterari sono poetici. In un certo senso si può dire che la sua vena più autentica è quella teatrale, tanto che l’Agrigentino fa teatro anche quando scrive in forma narrativa. Molti dei suoi drammi teatrali hanno trovato prima espressione in forma novellistica.
La genialità di un autore riesce ad avvertire la cultura della propria epoca, attraverso segni che i contemporanei non sono in grado di cogliere. Le opere di Pirandello non potevano essere comprese nei primi decenni in cui circolavano. Solo ora, a distanza di tanti anni, appare chiaro come descrivessero in maniera drammatica la perdita della bussola dell’uomo contemporaneo. Tanta produzione pirandelliana documenta una cultura relativistica che gradualmente, già all’inizio del secolo scorso, è diventata dominante, anche se i più non se ne sono resi conto. Così, l’importanza culturale di un romanzo come Il fu Mattia Pascal (1904) è affiancabile a quella dell’opera pittorica Les damoiselles d’Avignon (1907) di Picasso o alla formulazione della teoria della relatività nell’annus mirabilis (1905) da parte di Einstein. Del resto, non è casuale la vicinanza delle date.
Nel celeberrimo romanzo di Pirandello durante il soggiorno romano, il protagonista, assunta la nuova identità di Adriano Meis, conversa con l’affittuario dell’appartamento di nome Anselmo Paleari. Questi sostiene che ciascuno di noi abbia una visione del mondo che è come un lanternino di un certo colore. In alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono, invece, lo stesso colore. Afferma, infatti, Anselmo Paleari: «A me sembra [...] che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?». Oggi tutti i lanternoni sono spenti e gli uomini non sanno più a chi rivolgersi! Questa è la descrizione della modernità. Non più un lanternone unico che permetta di inoltrarsi nel reale illuminando con una luce comune, ma tante piccole luci che vagano come lucciole nella campagna estiva, troppo piccole per produrre un’illuminazione più vasta. L’uomo antico, rappresentato dalla figura dell’eroe Oreste, certo nel vendicare l’assassinio del padre, si tramuta così in Amleto, preso dal dubbio su tutto, inerte e incapace di agire.
In tutta la sua produzione Pirandello cerca di mettere in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un Ideale che ricomponga la sua «unità perduta». Le domande che attraversano la sua produzione sono che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere. Con queste parole il 31 ottobre del 1886, a soli ventitré anni, Pirandello descrive alla sorella Lina la condizione esistenziale dell’uomo: «Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia - passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita».
Ecco alcune tracce di risposta al dissidio umano che compaiono nella sterminata produzione pirandelliana. L’uomo assopito dal trambusto quotidiano, addormentato dalle incombenze e dal divertissement in cui vive, ha bisogno che accada qualcosa che risvegli il suo io, la sua sete di felicità. Lo capiamo dalle stupende novelle «Il treno ha fischiato» o «Ciàula scopre la Luna». L’uomo è come un bambino, che scopre la realtà solo nel momento in cui la guarda con stupore e meraviglia. E proprio come un bambino ha bisogno di un padre, di un autore che gli indichi una strada percorribile. È l’autore che cercano I sei personaggi, è quell’autore che Giovanni Testori, rileggendo il dramma pirandelliano, identifica nel maestro o addirittura in Dio (si veda l’opera I promessi sposi alla prova). Che la rilettura di Testori non si allontani dal vero ce lo conferma l’intervista che Pirandello rilascia a Carlo Cavicchioli nel 1936. Che cosa può ricomporre il dissidio, la lacerazione e il dramma che vive l’uomo? Sentiamo direttamente Pirandello: «Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto». Nella stessa intervista Pirandello si compiace che la sua produzione non sia mai stata ritenuta eterodossa dalla chiesa: «Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. […] La «Civiltà Cattolica» ne ha parlato a fondo […] e conviene della sua perfetta ortodossia […] Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana». Pirandello ci indica anche dove sia più presente nella sua opera la risposta al problema umano: «Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro».
In effetti è nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte del Drammaturgo), che Pirandello tenta di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna.
Consigliamo una rilettura attenta di tutta la trilogia. Qui ci soffermiamo sulla Nuova colonia. Alcuni diseredati, desiderosi di sfuggire al sistema iniquo della società, in cui prevaricazioni, sfruttamento, subordinazioni, potere ed egoismi dominano i rapporti personali, decidono di trasferirsi su di un’isola vulcanica deserta, sicuri che, in una palingenesi, ripartendo dall’origine, lontani dalla civiltà e dal progresso, in uno stato di natura primigenio, si possa costruire un mondo equo e perfetto. Tutti partono col desiderio di vita nuova e di una fratellanza che non hanno trovato nella città di origine. Il germe della distruzione è, però, già presente fin dall’origine, in quanto i protagonisti si muovono da un’idea che hanno in testa e che è dimentica della realtà dei fatti, della vera natura dell’uomo, della sua potenzialità di male, degli abissi di orrore e distruzione di cui l’uomo è capace. È qui incarnata quell’utopia sociale dimentica che il male non viene dal di fuori, dalla società, ma dal di dentro, cioè dal cuore dell’uomo. Così, dopo poco tempo, tutto si ricostituisce come prima. C’è chi vuole imporsi con la forza. C’è chi vuole arricchirsi rubando o saccheggiando tra le rovine! C’è chi si rende subito conto che sull’isola, nel nuovo mondo, nulla è cambiato, e chi, invece, si illude che altrove, su questa terra, l’animo dell’uomo possa essere diverso, immune dal male. È questo il caso di La Spera, una prostituta che sembra la redenta per eccellenza dal nuovo inizio e che, non a caso, è presentata spesso in maniera statuaria come fosse un gruppo scultoreo di una donna col bambino, appunto una nuova Eva, quindi una Madonna.
Dopo un po’ di tempo sbarcano sull’isola altri uomini che portano con sé tante donne. La scena è assai emblematica e allusiva. L’arrivo di così tante donne segnerà un cambiamento anche nel modo in cui gli abitanti dell’isola si rapportano con La Spera, la redenta dal viaggio e dalla maternità: trattata in un primo tempo con rispetto, quasi come simbolo della nuova vita e del nuovo corso, ritorna ora ad essere considerata la donna di tutti. L’Eden riconquistato si mostra per quello che è, il Paradiso che è stato perduto per sempre. Anche nel nuovo mondo non si può sradicare il male. La remissione dei peccati è, infatti, un grande miracolo e non è dell’uomo. Il nuovo mondo, l’utopia sociale, si rivela per quello che è davvero, un luogo fuori dal mondo, l’Inferno in terra: è il mondo creato dall’uomo che ha eliminato Dio e si è eletto guida e capo e Dio stesso. L’opera si conclude con i violenti litigi finali che vengono sommersi dal terremoto che ingoia l’isola. Solo spunta fuori dal mare uno scoglio su cui ha trovato la salvezza La Spera con il figlio!
La nuova colonia è il paradigma delle ideologie che hanno imperversato nel secolo scorso, più in generale di tutte le ideologie che hanno pensato e ancora pensano di progettare una risposta al problema umano, non partendo da uno sguardo realista sulla natura umana, ma da un’idea, da un sistema costruito a tavolino.