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USA

Trump contro Harvard, ormai è scontro personale

Ormai è scontro personale fra Trump e l'università Harvard. Dopo aver interrotto i fondi federali, ora vuole impedire l'iscrizione degli studenti stranieri. Ma l'università tiene duro e fa causa. 

Educazione 26_05_2025
Harvard (La Presse)

Il braccio di ferro fra l’amministrazione Trump e l’università Harvard ha ormai assunto le caratteristiche della faida. È ormai uno scontro personale, come molti altri avviati dal presidente repubblicano, per il quale tutto, alla fine, diventa personale. L’ultima mossa del governo, in settimana, è quella di aver vietato alla prestigiosa università, la prima nel paese (e, secondo non poche classifiche, anche nel mondo), di iscrivere studenti stranieri. Harvard ha fatto subito causa e l’ordine della Casa Bianca resta in sospeso fino a sentenza. Ma il danno è fatto e il panico garantito fra gli oltre 6500 iscritti provenienti da tutto il mondo, anche dall’Italia.

L’origine della faida è nelle politiche estremamente woke di Harvard. Come denunciava il sociologo Steven Pinker, ad esempio, nella facoltà di Lettere, i candidati all’assunzione dovevano presentare delle dichiarazioni scritte “sulla diversità” razziale, solo, come diceva Pinker, «per dimostrare la loro disponibilità a scrivere slogan woke». La presidente di Harvard, Claudine Gay, la prima donna nera, è stata al centro di uno scandalo, prima perché, in una interrogazione parlamentare ormai celebre ha dimostrato di non avere idea di come affrontare l’antisemitismo crescente nella sua università (e di non condannarlo neppure). Poi perché, sull’onda del dibattito sorto nei suoi confronti, è riemerso che fosse sospetta di plagio nella maggior parte delle sue opere. E i sospetti si sono rivelati fondati, costringendola alle dimissioni.

Il caso Gay è stato clamoroso, ma tanti altri episodi più piccoli sono la prova del clima che si respirava nell’università, soprattutto dopo il 7 ottobre, il pogrom scatenato da Hamas a nord di Gaza. Appena undici giorni dopo il 18 ottobre, gli studenti avevano organizzato un sit-in (anzi die-in, perché erano sdraiati invece che seduti) in solidarietà a Gaza. Durante il quale, uno studente ebreo, Yoav Singer, era stato circondato, insultato e costretto ad allontanarsi. Un incidente il cui video era diventato virale. La magistratura locale aveva aperto un’inchiesta. Ma la polizia di Harvard, secondo un’inchiesta del quotidiano The Free Press, non ha collaborato con la giustizia locale, non fornendo neppure l’identità degli aggressori (per altro ben riconoscibili: studenti che avevano anche ruoli nello staff universitario), rimandando i provvedimenti disciplinari a più di un anno dopo e riducendoli a pene irrisorie. Gli aggressori si stanno laureando in quest’anno accademico, l’aggredito non può che spendere soldi in avvocati per cercare di ottenere giustizia.   

Nelle ultime settimane, Harvard ha cercato di sostenere che sta lavorando duramente per affrontare l’antisemitismo al suo interno. Tre settimane fa, Harvard ha pubblicato il suo rapporto, atteso da tempo. Ma lo ha emesso lo stesso giorno di un altro rapporto di Harvard sui pregiudizi anti-musulmani, anti-arabi e anti-palestinesi, come se i due problemi fossero di pari entità.

È soprattutto sulla mancanza di repressione dell’antisemitismo che preme l’amministrazione Trump, perché è una violazione dei diritti civili, una forma di discriminazione. Di qui la decisione di porre un ultimatum: Harvard avrebbe dovuto fornire una serie di garanzie, anche nelle assunzioni del personale e nei programmi di studio, per garantire, invece che una diversità razziale, una “diversità ideologica”, quindi accettare una sorta di contro-rivoluzione woke. Harvard ritiene che la sua autonomia e libertà accademica sia violata da queste richieste del governo federale e si è rifiutata di accettare le condizioni di Trump. Da qui è nato il braccio di ferro. Prima l’amministrazione ha bloccato i fondi federali (e si parla, ormai, di cifre nell’ordine dei miliardi). Ma Harvard è ricchissima, ha un patrimonio di circa 53 miliardi di dollari e molti facoltosi donatori privati. Allora Trump ha pensato di alzare il tiro e di vietare l’iscrizione di studenti stranieri, cosa che colpirebbe (se attuata) un duro colpo sia alle finanze che al prestigio internazionale di Harvard.

Il segretario alla Sicurezza interna Kristi Noem ha affermato che l’iscrizione degli studenti stranieri è un privilegio, non un diritto acquisito. L’università rischia di perdere tale privilegio, ha affermato, perché ha creato un ambiente di studio ostile per gli studenti ebrei. Ha chiesto ad Harvard di inviare informazioni più dettagliate su tutti i suoi studenti stranieri iscritti a seguito dell’ottenimento del visto per studio. Le informazioni che chiede, secondo gli avvocati difensori di Harvard, vanno ben oltre quanto richiesto dalla legge in vigore. Ad esempio, si chiede che Harvard debba segnalare tutto ciò che sa sulle attività illegali, “pericolose” o minacciose dei suoi studenti internazionali e consegnare qualsiasi filmato che ritragga studenti internazionali impegnati in “attività di protesta”.

Gli studenti stranieri costituiscono una percentuale notevole nelle popolazioni studentesche delle università della Ivy League. Ad Harvard sono il 27%. A Yale il 28%. Alla Columbia, addirittura, oltre il 50%. Le implicazioni, come si legge nelle motivazioni della causa intentata contro l’amministrazione, potrebbero essere devastanti. «Senza i suoi studenti internazionali, Harvard non è più Harvard», hanno scritto gli avvocati dell'università. Gli studenti stranieri gestiscono laboratori, tengono corsi, conducono ricerche e praticano decine di sport universitari.

Harvard ha immediatamente presentato ricorso per ottenere un’ordinanza restrittiva, che è stata immediatamente concessa da un giudice federale. Ma l'ordinanza del giudice non entra nel merito della vicenda; dice solo che il tribunale mantiene lo status quo (quindi gli studenti stranieri, per ora, possono restare) in attesa del contenzioso.