Trump 2: un'America ambiziosa ma pragmatica in un mondo multipolare
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Il secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, che inizia oggi, si presenta come una svolta storica a prescindere da come la si giudica. Via ogni rigidità ideologica e approccio alle crisi internazionali con spirito pragmatico, accettando il multipolarismo.
- 41 anni di ambasciatori USA in Vaticano, di John Clarke
Raramente è capitato, negli ultimi decenni, che l'insediamento di un nuovo presidente degli Stati Uniti d'America fosse atteso con tanto interesse e partecipazione come quello di Donald Trump, che avrà luogo oggi. Raramente era stata tanto universalmente condivisa – con impazienza o con preoccupazione, a seconda degli opposti punti di vista - la sensazione che il mandato del nuovo presidente stesse per segnare uno spartiacque, la fine di una fase storica e l'inizio di un'epoca nuova.
È vero che nel 2008 l'elezione di Barack Obama era stata accolta, anche da chi non lo aveva sostenuto, come un evento epocale, in quanto per la prima volta alla Casa Bianca entrava un esponente della comunità afroamericana, e anche perché ci si attendeva, in base alle promesse elettorali da lui fatte, che egli ponesse fine alla lunga e controversa stagione dell'impegno militare americano in Iraq e Afghanistan.
Ma il secondo mandato di Donald Trump viene inquadrato già dalla maggior parte degli osservatori non soltanto come il segno di un cambiamento decisivo negli equilibri della società statunitense e di quelle occidentali, bensì anche come l'annuncio di un complessivo riassetto degli equilibri di potere e di potenza a livello mondiale.
Questa consapevolezza diffusa del fatto che siamo davanti a una svolta storica deriva da diversi fattori. In primo luogo, la parossistica campagna elettorale del 2024, che ha visto il cambio in corsa nel campo democratico da Joe Biden a Kamala Harris, è stata oggettivamente l'ultimo atto di un drammatico scontro politico e culturale cominciato nel 2016. L'irruzione, allora, di Trump nella politica statunitense e la sua inattesa vittoria contro Hillary Clinton avevano travolto l'intero establishment del partito democratico e di quello repubblicano, del conservatorismo e del progressismo tradizionalmente intesi; e avevano modificato drasticamente le linee di frattura nella dialettica politica del Paese, spostandola sulla polarizzazione tra élites e "popolo", vincenti e perdenti della globalizzazione trainata da Cina e aziende "big tech": uno slittamento che anticipava e annunciava analoghe nuove contrapposizioni in tutto l'Occidente.
L'"intruso" tycoon, con la sua radicale alterità, per tutto il suo mandato dovette fronteggiare una potente reazione di rigetto da parte di quell'establishment che aveva sfidato, tra le false accuse di compromissione con Putin (il Russiagate), le innumerevoli inchieste giudiziarie ad personam, l'ostracismo feroce del sistema mediatico mainstream, lo scatenamento della piazza estremista dei Black Lives Matter.
La sua sconfitta contro Biden nelle contestatissime elezioni del 2020, e poi le accuse di eversione a lui mosse dopo l'invasione del Campidoglio del 6 gennaio 2021, avevano convinto gran parte dei suoi avversari che il suo astro fosse tramontato definitivamente. Ma al contrario negli anni del mandato di Biden è emerso con grande evidenza che ad essere al tramonto erano proprio il sistema di potere e la cultura delle élite progressiste.
L'immigrazione clandestina incontrollata favorita dall'ideologia multiculturalista dominante ha provocato compressione dei salari e insicurezza diffusa. La transizione energetica forzata imposta dalla dottrina "gretista" green ha accentuato l'inflazione e favorito ulteriormente la deindustrializzazione a favore della concorrenza cinese.
L'indottrinamento woke delle giovani generazioni, la dittatura del gender, la sconsiderata politica del DEI che ha mortificato merito e professionalità sul lavoro a favore della propaganda hanno gettato altro, bruciante sale sulle ferite, provocando rabbia ed esasperazione in larga parte della società.
In questo contesto il trumpismo è riemerso e si è consolidato come unica plausibile alternativa a una deriva distruttiva e disgregante. Ha mantenuto la sua radice originaria di rappresentanza dei "dimenticati", ma è diventato qualcosa di più ampio: una dottrina della crescita, della riaggregazione sociale in nome dell'interesse nazionale. The Donald è tornato a vincere perché è apparso a una maggioranza molto trasversale di elettori come una liberazione dall'incubo di ideologie soffocanti, della paura e dell'impoverimento. Perché ha promesso di dare un taglio alle follie DEI, gender e woke in scuole e servizi pubblici; di porre fine all'ondata di immigrazione selvaggia; di consentire la ricerca del massimo possibile di materie prime energetiche abbassandone il prezzo; di tagliare gli sprechi della burocrazia e le spese per guerre all'estero; di proteggere il sistema industriale dal dumping asiatico, abbasando la pressione fiscale e incentivando gli investimenti.
D'altra parte, non è un caso che anche riguardo all'assetto politico internazionale il secondo avvento di Trump appaia come il possibile perno di una svolta rispetto a una situazione che tutti riconoscono deteriorata fino al punto di essere insostenibile. Nel primo quarto del ventunesimo secolo l'ordine planetario tendenzialmente universalistico e liberale incentrato sull'egemonia occidentale che sembrava plausibile dopo la guerra fredda è rapidamente crollato, in favore di un brusco riequilibrio del potere politico ed economico.
Il mondo globalizzato si è configurato come un universo multipolare fluido e disordinato, disseminato di conflitti geopolitici, culturali, etnici, religiosi sempre sul punto di scivolare fuori controllo, e in cui l'Occidente appare sempre meno in grado di esercitare una ledership effettiva. Di fronte a questa evoluzione, le classi politiche occidentali, sia progressiste che conservatrici, hanno continuato ostinatamente a perseguire un impossibile unilateralismo, cercando di imporre la loro agenda ideologizzata a un resto del mondo ormai privo di qualsiasi retaggio di subalternità, deciso a perseguire i propri principi e interessi e dotato della forza per farlo.
Anche su questo piano, Trump appare come l'artefice di un deciso cambio di passo, che inevitabilmente coinvolgerà tutti i paesi alleati degli Stati Uniti. Promette di dismettere ogni rigidità ideologica e di affrontare i poli di crisi mondiali con spirito pragmatico e realista, perseguendo innanzitutto una stabilizzazione che consenta la crescita economica. Pensa chiaramente che ad oggi un assetto multipolare del mondo sia un dato di fatto inevitabile, e che l'interesse degli Stati Uniti e dell'Occidente sia un multipolarismo sistemico, fondato su potenze che si riconoscono e dialogano tra loro, a partire da sfere di influenza ben chiare e delimitate.
È fautore, all'interno di questo quadro, di una politica autorevole, fondata su una credibile deterrenza, ma aperta ad accordi bilaterali, partnership e scambi con gli altri protagonisti del "grande gioco".
Si può guardare con favore a questa prospettiva programmatica, o avversarla. Si può essere più o meno fiduciosi nelle capacità di Trump di tradurla in fatti. Ma non si può negare che, sia sul piano interno che su quello internazionale, egli si sia guadagnato una inequivocabile centralità nella storia del nostro tempo.
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